di Matteo Dean (da Carmilla)
Ancora oggi il titolo di questo articolo continua ad essere la frase più usata dai movimenti sociali in solidarietà coi migranti di tutto il pianeta. L’ovvietà di quello slogan è tanto immediata quanto incompiuta. Da quando la migrazione in quanto fenomeno economico e sociale venne inserita nell’agenda di sicurezza nazionale in differenti paesi, soprattutto del cosiddetto “nord” del mondo, la criminalizzazione dei migranti è stata una costante. E non si tratta solamente di articolate e certe volte assurde campagne mediatiche ma, superando qualsiasi considerazione di tipo etico, delle politiche pubbliche che cercano di affrontare il fenomeno. In questo senso il caso europeo è particolarmente interessante.
Oltre all’enorme quantità di norme nazionali e continentali che cercano di regolare il fenomeno migratorio – come sostengono i loro promotori – o meglio reprimerlo e controllarlo – come dicono gli oppositori – c’è un aspetto di queste politiche pubbliche che è necessario segnalare e denunciare non solo per la loro assoluta mancanza di rispetto delle leggi fondamentali su cui si poggia (o dovrebbe poggiare) lo stato di diritto ma anche per il loro manifesto carattere inumano. Mi riferisco ai Centri d’Identificazione ed Espulsione che possiamo anche chiamare Centri d’Internamento per Stranieri (i famosi CIE). Ad ogni modo questi centri non sono altro che centri di detenzione per migranti privi di documenti, del tutto simili a quelli che in altre parti del mondo sono chiamati Stazioni Migratorie. L’apparente disputa sul modo di chiamare questi spazi non è triviale, infatti dal loro nome passa la costruzione dell’immaginario collettivo riguardo l’opportunità di rinchiudere degli esseri umani la cui unica responsabilità è quella di non avere i documenti che giustifichino la loro permanenza su un determinato territorio.
La detenzione amministrativa. Il Observatori del Sistema Penal i els Drets Humans (OSPDH), della Universidad de Barcelona ha definito i CIE come “strutture pubbliche di carattere non penitenziario per la detenzione, la custodia e la messa a disposizione dell’autorità giudiziaria degli stranieri soggetti a una procedura di espulsione dal territorio nazionale”. Da parte loro le leggi nazionali di ogni paese membro dell’Unione Europea non si trovano d’accordo sulla definizione di che cosa siano esattamente questi spazi. Ciononostante tutte le legislazioni sono d’accordo sul fatto di rifiutare la penalizzazione della “mancanza di documenti” per la permanenza legale. D’altro canto, però, c’è una convergenza anche per quanto riguarda la prassi di “trattenere amministrativamente” chi non possiede questi documenti.
Il concetto di “detenzione amministrativa” è stato introdotto in sequenza in tutto il continente europeo a partire dagli anni ottanta attraverso le diverse legislazioni nazionali. Lo stato spagnolo per esempio ha introdotto tale norma – chiamata “internamento” – con la Legge Quadro 7/1985 sui diritti e le libertà degli stranieri. In Italia invece questa figura legale è stata introdotta solamente nel 1998 con la Legge 40/98 che andava a modificare la prima legge sulla migrazione del 1990.
In generale tutte le norme hanno in comune il fatto che la “detenzione amministrativa” ha la funzione di trattenere il migrante senza documenti “quando non è possibile rendere esecutiva l’espulsione accompagnando [lo straniero] alla frontiera o non è possibile espellerlo perché deve essere soccorso o sono necessarie ulteriori verifiche sull’identità o la nazionalità, oppure è necessario un tempo di attesa per ottenere i documenti per il viaggio [di ritorno], o per mancanza di un mezzo di trasporto adeguato”. Analizzando questo concetto, molti osservatori e analisti continuano a segnalare quantomeno come sorprendente il fatto che si possa privare una persona della libertà per assicurare un’eventuale sanzione amministrativa. E’ lì dove troviamo secondo i critici le maggiori contraddizioni. Considerando che, in pratica, la condizione del migrante senza documenti non è perseguibile penalmente, ci si chiede come sia possibile togliere la libertà per questioni amministrative, per un delitto che potrebbe anche assimilarsi a un’infrazione del codice della strada.
Brutale, fredda e orwelliana.
Ancora oggi sono poche le persone che sono potute entrare in un CIE che non fossero appartenenti alle forze dell’ordine, membri del governo e del parlamento o migranti detenuti. Anche se i CIE non sono formalmente delle carceri e i migranti sono trattenuti in qualità di “ospiti”, la verità è che questi non possono uscire dalle strutture dei CIE. Oltre a questo bisogna segnalare che, sebbene le strutture di detenzione in generale sono date in gestione a imprese private – in molti casi organizzazioni della stessa società civile europea più inclinate a gestire l’esistente anziché cercare di cambiarlo – sono i governi nazionali che s’occupano della sicurezza nei CIE. In altre parole anche se i migranti formalmente potrebbero uscire dai Centri, dato che secondo la legge sono passibili di sole sanzioni amministrative, esistono comunque muri, fili spinati videocamere e centinaia di poliziotti frapposti tra loro e la libertà.
Questi controlli, però, non solo impediscono ai migranti di esercitare il diritto alla libera circolazione ma precludono anche a noi che stiamo fuori, noi cittadini o migranti “regolari”, la possibilità di entrare e sapere che cosa succede veramente lì dentro. L’informazione è talmente scarsa da gridare allo scandalo. Infatti sono all’ordine del giorno le denunce di abusi contro i detenuti da parte della autorità, così come l’assenza di servizi, i tentativi di ribellione e di fuga – spesso riusciti – e anche i maltrattamenti, le molestie psicologiche e sessuali. La lista potrebbe continuare e rompere il muro del silenzio che circonda questi spazi che la società civile europea, nelle sue componenti solidarie con la causa dei migranti, non esita a definire come “campi di concentramento”.
Non li chiamerei “campi di concentramento” in quanto i nazisti pensavano di annichilire la persona fino alla sua eliminazione fisica. “Nei CIE non si arriva a tanto”, dice Fabrizio Gatti, un giornalista italiano che nel 2005 riuscì a introdursi in un CIE facendo finta di essere un immigrato mediorientale e in seguito denunciò gli abusi cui sono soggetti i detenuti. “Mi piacerebbe che se domani si scrivesse una storia della migrazione, questi luoghi venissero chiamati con la loro brutale, fredda e orwelliana sigla: CIE. Questa sigla dice tutto”. Effettivamente sembra proprio così dato che i centri di detenzione per migranti rappresentano quasi un mondo a parte in cui nessuno sa che cosa succede e come. Dinnanzi a tutto ciò la rete euro africana delle organizzazioni civili per i diritti dei cittadini migranti, la Migreurop, ha organizzato quest’anno la seconda visita ai CIE della Germania, dell’Italia, della Francia e della Spagna come conseguenza della lunga campagna lanciata a livello continentale dal titolo piuttosto chiaro: per il diritto di ispezione nei luoghi di confino.
Nonostante le difficoltà di tipo amministrativo, alcuni rappresentanti della società civile europea, accompagnati da alcuni deputati di diversi paesi, hanno potuto visitare alcuni dei CIE esistenti nella UE. Le conclusioni della carovana che è stata in questo viaggio-missione per l’Europa dal 7 marzo all’uno aprile sono chiare e non lasciano adito a dubbi: “L’obiettivo di questa seconda campagna della rete Migraeurop, che ha chiesto nel 2010 la chiusura dei centri di internamento di cittadini stranieri dentro e fuori dall’Europa, era rendere note le condizioni di confino dei migranti e la violazione sistematica dei loro diritti. Le differenti visite realizzate hanno permesso di mettere in evidenza le loro difficoltà materiali e nell’accesso ai diritti così come la mancanza di trasparenza su quanto in realtà sta succedendo dentro i centri. Rendendo così manifesti gli effetti nefasti e repressivi dell’arresto dei migranti, la conclusione delle differenti visite non fa altro che confermare l’illegittimità dei fermi e la necessità di chiudere i centri di confino, proprio come hanno dichiarato senza giri di parole alcune delegazioni al termine della loro visita”.
Repressione Vs. Controllo. Malgrado la diffusione di retoriche anti-migrante sparate a voce alta dai leader politici europei a livello continentale e anche locale, i quali sperano in questo modo, e in parte ci riescono, di raccogliere voti e consensi, le politiche europee sul tema migratorio non hanno l’intenzione di reprimere tout court i flussi di immigrati che da molte zone del pianeta arrivano al territorio della UE. Al contrario i muri che si alzano e le leggi che si producono, così come i centri di detenzione che si costruiscono, hanno la funzione primaria di controllare i migranti. Diventano una specie di filtro darwiniano in cui tutti questi strumenti selezionano i migranti, li separano tra capaci e non, adatti o no, per svolgere il lavoro che – pur con gli indici di disoccupazione del vecchio continente – è abbondante per i cittadini di seconda categoria in cui si trasformano gli stranieri senza documenti della UE.
Un prova di questo è costituita dalle decine di CIE che la UE, tramite accordi bilaterali, ha fatto costruire in territorio africano. In Libia, a Tunisi, in Marocco, tanto per citare alcuni esempi, i CIE sono nati negli ultimi anni come strutture per contenere i flussi migratori diretti verso il vecchio continente. Con una chiara dinamica di esternalizzazione delle frontiere – tipica anche nell’emisfero americano, basti pensare al confine tra Messico e Stati Uniti – la UE non cerca solamente di frenare quello che la stampa presenta come “un’invasione” di “illegali, clandestini o senza documenti” ma prova altresì a riprodurre in terra straniera – e pertanto lontano dagli sguardi indiscreti delle società nazionali – gli spazi adatti al contenimento e alla selezione del nuovo “esercito di riserva”, di reminiscenze marxiane, che è sempre necessario per coprire posti abbandonati in produzione dai loro pari europei. .
Non si tratta quindi di reprimere l’immigrazione per reprimerla. Non si tratta nel modo più assoluto di impedire che milioni di esseri umani che scappano dalla povertà, dalle guerre, dalle repressioni o che semplicemente vogliono cambiare vita, riescano a stabilirsi nella UE. Si tratta semplicemente di formare progressivamente un contingente di persone che costituiscano una riserva di mano d’opera a basso costo. D’altra parte è gioco forza anche che quella forza lavoro a costo infimo possa pure divenire oggetto di ricatti e minacce capaci di trasformarsi, di conseguenza, in un gruppo di soggetti utilizzabili all’occorrenza secondo le necessità di padroni e governi.Inoltre i CIE e la loro distribuzione territoriale svolgono un altro compito: quello di far sfumare il potenziale di coesione tra i migranti. Un esempio è la pratica costante dei trasferimenti di cui sono oggetto i migranti spostati da un CIE all’altro.
In questi ultimi mesi di presunta “emergenza migrazione” nella UE i flussi di tunisini – tanto per menzionare un gruppo nazionale vituperato dalla stampa europea quest’anno – sono stati separati, divisi e inviati in località differenti. Si tratta in effetti di spezzare vincoli, nessi possibili tra comunità di migranti che si riconoscono prima di tutto per la loro nazionalità ma anche per la destinazione imposta con la reclusione nei CIE. E’ forse possibile affermare che i CIE sono l’ultimo territorio europeo che un migrante calpesta sulla via dell’espulsione. Questa affermazione sarebbe vera fino a un certo punto. Infatti, malgrado la propaganda sulle espulsioni e le deportazioni di massa – per cui la famigerata Direttiva sui rimpatri del 2008 sarebbe il principale strumento di riferimento – la UE non possiede strumenti e mezzi (prima di tutto economici) concretamente per deportare le grandi masse di esseri umani stipati nei CIE. La soluzione, quindi, passa dal rilascio di “decreti di espulsione” che il cittadino migrante deve rispettare, cui deve adempiere “con mezzi propri”. Dunque che faranno questi cittadini? L’opzione unica diventa l’inserimento nel mercato del lavoro in nero della Unione Europea.