Francesca Calì
È nata prima l’esperienza o il lavoro? Questa è la tipica domanda che spesso chi sfoglia offerte di impiego – più per hobby che per reali aspettative – tende a rivolgersi. Oltre allo sgomento che si prova nel constatare la totale assenza di annunci in cui il proprio titolo di studio venga anche solamente menzionato più che sfruttato, ci si trova spesso davanti anche alla fatidica formula “richiesta esperienza”. Da qui la domanda si fa strada e il dubbio si insinua: come si fa a maturare esperienza sul campo se per accedervi la si deve già possedere, quasi fosse un fattore intrinseco della persona, come avere gli occhi blu piuttosto che verdi? Poi all’improvviso lo vedi, ammiccante lì in fondo alla pagina: «ottima opportunità lavorativa senza la richiesta di precedenti esperienze o livelli di istruzione particolari» (che è storia vera e non invenzione narrativa). È lei, la sirena degli annunci di lavoro che con il suo dolce canto ti attira a sé. Una lusinga, prologo ed epilogo di tutta la storia, a cui finisce per cedere anche Descentio Cesellati, eroe moderno di Nessuna esperienza richiesta (Intermezzi Editore) secondo romanzo di Gianluca Comuniello. Il suo personaggio è l’Ulisse contemporaneo che intraprende il suo viaggio per il mondo non «per seguir virtute e canoscenza», requisiti che dall’alto della sua laurea cum laude in Scienze Politiche ritiene ingenuamente di possedere, ma per ben più epica impresa: trovare lavoro. La realtà del neolaureato con il suo bagaglio carico di nozioni e belle speranze è la scenografia di questo spettacolo grottesco, creata abilmente dall’autore per fornire degno palcoscenico ai suoi personaggi realizzati così da apparire come caricature di se stessi.
Tra loro Descentio, che diventa un po’ protagonista e un po’ incredulo spettatore degli avvenimenti che lo inglobano nel loro divenire. C’è il capo intento a baciare la foto-santino del politico benefattore, l’amica la cui gravidanza è tenuta sotto scacco da un accordo in cassaforte, la fidanzata, quella odiosa che ha sempre ragione e che con sguardi carichi di mal celato disgusto ti porta ad iscriverti in palestra (che non si chiama mica palestra ma club). Al centro di questa visione caleidoscopica c’è un universo distorto dove tutto comincia ad avere una sua fredda logica tale da giustificare anche i sorrisi affettati di estranee in tailleur («perché si sa che le risate sono tipiche dei tailleur, le vendono insieme al capo di abbigliamento»), e in cui non serve nemmeno l’abilità della maga Circe per trasformarsi in fiere addomesticate e «mici fedeli». L’autore tratta con ironia intelligente, seppur dal retrogusto amaro, il tema attualissimo della ricerca di un posto di lavoro, a quanto pare fenomeno tutto italiano; praticamente una disciplina olimpica (a giudicare dai tempi di collocamento) in cui ancora si cimentano i “choosy” giovani del bel paese. Il “riso amaro” viene esteso verso i suoi più estremi confini, dando al lettore la possibilità di concedersi una sincera risata senza essere schiacciato dal tema del decadimento sociale, che fa capolino con discrezione fino alla fine del romanzo. Una volta emerso però, si leva prepotentemente in tutta la sua surreale grettezza, strappando l’ultimo sorriso carico di acre consapevolezza.