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Nessuno parte…

Creato il 14 giugno 2012 da Dbellucci

La verità è che stavamo andando a Kiruna da Narvik, in quel treno attraverso la Lapponia. Da Narvik si sale e le montagne si coprono di neve residua, bianca e dorata al sole notturno, quando gli animali non fanno movimenti. Fiancheggiammo strade deserte in quel giorno surreale. Passavano piccoli gruppi di case rosse, in legno, coi tetti grigi appuntiti. La ferrovia era alta su una lama di sassi, plastica e prosperosa.

Ti dicevo che il colore mi lasciava senza parole.

Il treno era deserto, fuori danzava un buio d’avorio. Guardando l’orologio non ci si credeva, nonostante fossimo da diverso tempo oltre il circolo polare. Colore e fissità. Fissi i pini isolati, l’erba e i laghi ben livellati che accoglievano tutto il paesaggio ed anche il treno che passava. Ci avevano indicato un paese a mezza via, per fare una sosta. Il paese aveva un campeggio, anche se, con le tende, ci potevamo fermare ovunque. Scegliemmo di fermarci a Riksgransen perché si trova perfettamente al confine tra Svezia e Norvegia.

Scendemmo dal treno nella stazione deserta. Eravamo gli unici. Cenammo lì con due panini e arrivammo in fretta alle quattro case del borgo. C’era un grande albergo, roba di lusso, pieno di gente. Dietro si distendeva un lago in letargo, calmissimo come tutto il resto. Lungo le colline, dal lato della ferrovia, la neve alternandosi all’erba faceva i colori mai visti.

Ci spostammo più lontano, fiancheggiando il lago. Accanto ne trovammo un altro, più piccolo, poi ancora uno. Il giorno dopo, saliti sulle colline, avremmo visto una grande distesa di laghi color cobalto, senza alcun vento, separati da strisce di terra verdissima e roccia. Quell’ambiente sembrava appena creato.

Piantammo la tenda in poco tempo. Il terreno era umido e aveva odore metallico.

Il giorno dopo arrivò la svolta.

L’albergo di Rikgransen non era pieno di turisti giunti in Lapponia per fare del gran trekking. C’era invece una conferenza dal nome inglese su un argomento che provarono a spigarmi, ma la mia indifferenza era abissale. Sei ragazzi, alla conferenza, erano italiani. Sei giovani scienziati sui trent’anni, uno più sommesso dell’altro. Avevano il drammatico bisogno d’una donna o di una via d’uscita.  Li incontrammo che passeggiavano vicino al laghetto. Noi stavamo pranzando davanti alla tenda.

I sei amiconi dei numeri ci sentirono parlare nella loro lingua e si presentarono. Ho dimenticato i particolari del loro aspetto, ma parlando dell’immensità del mondo facevano venire le ragnatele. Tolto questo, grazie a loro fummo a destinazione prima del previsto. “Prima” per modo di dire, visto tutti i mesi che c’erano voluti. Parlando del più e del meno, saltò fuori che sarebbero andati a Capo Nord il week-end successivo. Avrebbero noleggiato due auto.

«Possiamo venire?» chiesi al volo.

Non obiettarono, ma solo perché, essendo sei, avrebbero dovuto prendere comunque due auto.

Noleggiammo, invece, un furgoncino, per spendere ancora meno.

Fu un viaggio piacevole, non tanto per i luoghi, quanto per il nostro animo. Stavamo arrivando a destinazione su una strada anonima che batteva il verde.

Incontrammo solo camper e qualche motocicletta. La luce non ci lasciò mai. Dicemmo davvero poche cose, riconsiderando noi stessi e tutti quei giorni in Europa. Curva su curva e riapparve il mare, perduto verso l’orizzonte, più forte dell’orizzonte stesso, piegato per riprendere la volta della nostra terra. Le grida dei gabbiani coprivano le scogliere pallide, e i loro escrementi ne erano la seconda testimonianza. Scomparve di nuovo il mare, riprese forza il sole. Non sapevamo che ora fosse. I sei amici erano ben più stupiti di noi. Forse perché raccontavamo, tranquillamente, la nostra storia e il viaggio. Ci chiesero dell’Università, del futuro, dei risparmi, delle banche. Tutti argomenti su cui spaziava la nostra solenne ignoranza. Avvicinandoci a Capo Nord, il trafficò aumentò un poco. Riapparvero gli uomini e le macchine fotografiche. Qualcosa che poteva anche sembrare un parcheggio.

 

Esiste un luogo, oltre il Circolo Polare, per gli uomini che non s’accontentano di vivere. Oltre quelle terre non puoi evitare di ricominciare, perché se muori è un problema far sparire il tuo corpo. Vorrei avere il punto di vista di questi monti che guardano giorno e notte dritti nel cuore. Ci muoviamo così poco. Ci muoviamo così male. Ma nessuno ci vieta di conquistare la nostra vita e andare su su verso le Svalbard, tritando nel mortaio la consueta ipocondria.

Salendo sullo spigolo della Norvegia scese un fiato di nebbia dalle montagne. Ancora ci superò una colonna di motociclisti. Terminati gli alberi, ritrovammo paesaggi di luoghi ventosi, le scogliere calde di Cabo da Roca, la forza di Cap Frehel, in Bretagna. Mare oscuro, un po’ di neve sul bordo. Rigoroso silenzio fra noi nell’ultimo tratto. Predominava in me un’emozione ubriaca mista a tristezza. Questo perché, girati i tacchi, si doveva tornare indietro. Forse.

Eccoci.

Rivedo nella mente quel giorno di foschia. Arrivò d’improvviso, che eri girato dall’altro lato. Ti diedi uno scossone. Aumentò nuovamente il traffico.

Capo Nord era la cima spelacchiata d’una gloriosa piramide. Grande il bazar, dove si vendeva di tutto. Uno spazioso parcheggio, la gente che paga, noi che paghiamo con la gente perché si vive una sola volta. Le nostre giacche tenevano poco, e ancora non ricordo i nomi dei sei giovani scienziati. Forse di quello che guidava, perché gli avevano detto spesso di fermarsi per fare una foto. Quelle foto, in alcune delle quali eravamo anche noi, le hanno spedite a casa mia a San Paolo e ora sono qui, alle pareti. Le ho riguardate prima, mentre mi preparavo per un tuffo nel fiume.

Ecco, ancora scivola l’acqua su di me, tu non ti stanchi della tartaruga, i pesci svolazzano nel loro freddo dolce. Faccio il morto e guardo il cielo. Due ragazzini, in fondo, mi salutano e fanno spruzzi con le mani.

Abbiamo occhi da vecchio in quelle foto. Questo perché dovevamo ancora decidere che senso dare alla fine, e guardavamo Capo Nord già con le spalle al vento, accarezzandone di mala voglia il mappamondo che troneggia.

«Cazzo, Bart, il mappamondo non è una banderuola».

«Tu dici?».

Ci siamo guardati intorno, abbiamo chiesto indicazioni alle persone. Erano tutti sbiaditi.

Oggi quello che mi resta dice d’un pomeriggio balaustrato, su un mezzo isolotto, a fissare la faccia annoiata del sole che spalancò la nebbia di colpo.

A pensar di tornare a casa ci veniva il vomito, eppure la terra era finita.

Ci siamo guardati intorno.

Nessuno partiva per le Svalbard.



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