L'Arbat oggi.
Aspettavamo neve a gogo ed invece ecco un bel sole invernale, cielo azzurro e temperatura sotto lo zero. Quasi mi ci ero abituato all'idea del bianco per le strade, sarà che fa natalizio, sarà che avevo voglia di sentire nell'aria quell'odore di neve che sta per scendere, un odore indefinibile, un po' metallico, un po' asciutto che dominava una volta le strade di Mosca, sovrastando anche il puzzo della benzina bruciata. Forse è la nostalgia di quando ero bambino e camminavo in via Dante per mano alla mamma, infagottato in un cappottino grigio caldo caldo con un baschetto in testa, oppure la voglia di quella Mosca lenta e sonnacchiosa, chiusa in sé stessa in attesa di un futuro sperato e temuto che incombeva. Un amico di quei tempi mi ha mandato un paio di foto della Mosca di questi giorni. Eh capperi, quella sì che è neve come si deve e lascia stare che poi si annerisce e infradicia tutto o ghiaccia malamente cristallizzando grumi di freddo attorno ad ogni sporgenza, ma quando arriva la neve è gioia comune, è senso di pulito di cui tanti hanno sempre di più un insostenibile necessità. Camminavo lungo l'Arbat ancora povero e miserevole, scarsamente illuminato dalle fioche luci di un passato malato ed in agonia. Ecco laggiù una bancarella coperta di distintivi e vecchie medaglie. Una ragazzetta infreddolita si stringe in un cappottino liso e troppo leggero che la mostra ancor più magra e triste, i bei capelli biondi ridotti a corta stoppa opaca.
Più in là shapke e dublionke di pelo non troppo lucido e cucito alla meglio, pelli di animali miseri, coniglio, volpi gialle e qualche rara ondatra, la versione povera del visone. Un giovane grande e grosso quasi nascosto da un gonfio piumone cinese nero, sembra un omino Michelin gigantesco che ciondola da un piede all'altro battendosi le mani inguantate, mentre il pesante respiro forma nuvole di condensa fuori delle sue guance rubizze. Seduta sui gradini di una casa, una vecchia dall'età indefinita, ma potrebbe avere anche solo quaranta anni è quasi accartocciata su sé stessa; la grande sciarpona di lana fatta a mano quasi le copre la faccia e le nasconde i capelli, vedi solo le mani magre, strette attorno al collo della bottiglia di Stolichnaja quasi vuota. Pochi passanti, a gruppetti frettolosi che buttano sguardi distratti intorno, pieni solo della voglia di arrivare a casa in fretta. Eppure, che voglia di sentire ancora il rumore delle mie scarpe alte e imbottite che schiacciano la neve, lasciando orme nette. Disegno bianco su bianco eppure così distinto e personale. Sgnek, sgnek, sgnek, vai avanti lentamente con un po' di fatica alzando i piedi. Sgnek, sgnek sgnek, la neve crocchia e ti è compagna in quella che pare solitudine nella penombra scura dei pomeriggi dell'inverno russo. Sgnek, sgnek sgnek, che curioso, anche il vocabolo russo che indica la neve ha un suono così onomatopeico e segnante. Grazie Zhenja di avermi mandato queste foto.
Un parco a Mosca.
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