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“Neve” di Orhan Pamuk: integralismo occidentale ed integralismo islamico a confronto

Creato il 10 marzo 2015 da Alessiamocci

Kars – cittadina turca condivisa tra curdi, georgiani, nazionalisti laici e integralisti religiosi – viene sconvolta da un’ondata di suicidi.

Chi si suicida?

Donne. Solo donne.

Perché si suicidano?

È quello che Ka, turco auto-espiantatosi in Germania, scoprirà non appena giunto a Kars.

Il romanzo di Pamuk s’impernia su un un elemento tipico del giallo (il morto – le morte, in questo caso), ma i delitti che fanno scattare la trama non sono che la punta dell’iceberg di un giallo ben più grande:

Perché le donne di Kars si suicidano?

La risposta, per quanto non confermata ufficialmente, è tutt’altro che un mistero. La risposta viene sussurrata e urlata per tutta Kars.

Le donne si suicidano perché viene loro imposto di togliersi il velo.

E allora, chiuso il primo giallo, al lettore europeo si schiude subito il secondo:

Perché queste donne vogliono portare il velo?

Ka, Kar (titolo originale del romanzo, letteralmente tradotto in Neve) e Kars sembrano tre microcosmi, di diversa grandezza, della stessa idea: una coltura sperimentale in cui, per amor della scienza o per gioco, qualcuno abbia travasato le tendenze più estreme della cultura europea e di quella islamica. Che cosa succede se mettiamo degli acerrimi nemici nella stessa stretta, angusta, stanza? Pamuk non ci offre una risposta definitiva, ma solo una possibile conseguenza: che alcune donne si suicidano.

Perché una donna dovrebbe suicidarsi pur di non rinunciare al velo?

Per scoprirlo Ka s’immergerà in questa cittadina di frontiera e nella sua fauna che sembra essere stata dipinta seguendo il principio divide et impera (non sappiamo chi vince, ma sappiamo chi perde: le suicide).

Del vecchio integralismo islamico a Kars non c’è traccia, e non a caso: non esiste un vecchio integralismo islamico, ma solo singole persone che abbracciano l’Islam dopo essere state deluse dal sogno europeo. Come siano i “veri” (qualsiasi cosa significa) islamici, il romanzo non sa descriverceli. Sono mai esistiti? Piuttosto, Neve ci fa intuire una più amara verità: l’integralismo islamico, più che essere l’ultima evoluzione di una cultura retrograda, è una modernissima reazione ai non-così-perfetti-e-assoluti ideali europei-occidentali. Sarà questa la verità? Pamuk non offre risposte assolute, continuando invece con la sua carrellata di personaggi.

E viene così il turno dei fondamentalisti laici pro-europei (e, badate bene, europei, non occidentali: è l’Europa, qualsiasi cosa sia, a fungere da riferimento a Kars, non un vago Occidente), che nulla hanno a che invidiare – in quanto a tolleranza – agli integralisti islamici. È facile strappare veli da volti anonimi inneggiando a una vaga ma assoluta verità – e, perché no?, al ritmo di liberté, égalité, fraternité – ma a Kars le donne che lo portano non sono generiche femmine sottomesse da una cultura oppressiva, bensì individue con le loro ben definite ragioni, inestricabilmente legate alla loro identità. Vittime consenzienti di una cultura maschilista? Difficile, in un crogiuolo quale Kars è, giungere a tali semplicistiche spiegazioni. Intanto, però – mentre, personaggio dopo personaggio, Pamuk sembra mettere in scena ogni ipotesi solo per confutarla – il ritmo con cui si inneggia a liberté, égalité, fraternité comincia a suonare marziale.

E infine, tra gli infiniti personaggi tratteggiati da Pamuk, c’è Ipek, la donna di cui Ka si dice (a se stesso) innamorato, che paradossalmente (ma è veramente un paradosso?) è uno dei personaggi meno tratteggiati del romanzo. Fino a metà lettura l’unica cosa che sappiamo di lei, in fondo, è che Ka l’ama. Non basta questo, a una donna, per essere il personaggio di un romantico romanzo europeo? Mi sono chiesta se Pamuk l’abbia fatto apposta: se abbia apposta ritratto un Ka che, in modo squisitamente occidentale, pur di perdersi nel sogno del romanticismo e della felicità amorosa, decide che Ipek ha valore perché lui la ama, e lui la ama perché lui ha bisogno di amare una donna, e quella è l’unica donna di Kars che già abbia amato.  Ipek acquisisce valore di riflesso, insomma – niente di nuovo sul Fronte Occidentale.

Perché – come il romanzo rivela districandosi tra la trama, i pensieri di Ka e tutti i personaggi che incontra – il problema di fondo forse non è il velo, ma l’imposizione. Quale essa sia. Ti impongo di indossare il velo e Ti impongo di toglierti il velo sono frasi solo apparentemente contrapposte, che in comune hanno la forza coercitiva di tutte le imposizioni. Qualcuno ordina, a qualcuno viene ordinato. E ai secondi – alle seconde, in questo caso – rimane una libertà di scelta molto risicata, che Pamuk estremizza e simbolizza con una pandemia di suicidi.

È proprio il velo – simbolo massimo dell’annientamento della volontà della donna in certe culture islamiche – che Pamuk usa per dimostrare il paradosso: i valori della cultura occidentale sanno essere arbitrati e dispotici tanto quanto quelli del tanto paventato Islam. E così l’essere umano (Ka), il romanzo (Kar) e la città (Kars) si rivelano essere in una posizione simile a quello delle donne suicide, simile ma meno estremizzata: contesi tra due culture vissute ai loro estremi, si trovano a contemplare il triste destino della Soglia in tempo di guerra ideologica – divisa tra due opposti apparentemente inconciliabili, il confine si fa trincea, e in trincea finisce perlopiù carne da macello.

Un certo integralismo islamico è brutale?

Indubbiamente.

Ma, quando la risposta dell’Europa alla brutalità dell’Islam è brutalità, il cerchio si chiude con un’impietosa eleganza: si torna al puro, tanto illuministicamente condannato, mors tua vita mea.

Orhan Pamuk è nato nel 1952 a Istanbul, Turchia, dove tuttora vive.Vincitore del Premio Nobel per la Letteratura del 2006 con Neve, ha pubblicato diversi libri, tra cui: La nuova vita, Il mio nome è rosso e Istanbul.

 

Written by Serena Bertogliatti

  

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