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“La loro risposta di ribellione non aveva né slanci epici, né proclami idealisti. Era l’urlo sgraziato e spontaneo della rabbia, il lamento dell’angoscia. E per reazione all’etica del profitto e della produttività, al posticcio ottimismo anni ottanta, furono il sarcasmo e l’apatia l’antidoto per restare umani. Stare fieramente dalla parte dei perdenti, ostentare indifferenza di fronte alla catastrofe, simpatizzarecon il fallimento”.Seattle, inizio anni ’90. Un luogo e un tempo che, musicalmente parlando, portano la mente in una sola direzione. Un’ondata di gruppi, tutti diversi e tutti accomunati da una stessa aria di famiglia: il grunge.Pearl Jam, Soundgarden, Alice in chains, Melvins e, soprattutto, i Nirvana. Questi ultimi, ancor prima di quel fatidico 5 Aprile del ’94, in cui Kurt Cobain si consegnò alla leggenda con un colpo di fucile, erano la band più rappresentativa diuna stagione straordinaria, per creatività e portata sociale.I Nirvana erano la voce universale della Generazione X, quella nata alla fine degli anni ’60, quella che non aveva il ricordo fresco della guerra mondiale e non aveva combattuto in Vietnam. Era la generazione dell’alienazione urbana e della solitudine, dello scioglimento di ogni ideale e di ogni punto di riferimento. Un branco di giovani che si ripiegano su se stessi, pieni di rabbia, senza un bersaglio su cui sfogarla. Il grunge, quello dei Nirvana, è il recuperò della semplicità espressiva del punk. Pochi accordi suonati a ripetizione, per cercare un effetto quasi anestetico e ipnotico. Un’apparente confusione dove riuscire a dimenticarsi della sofferenza e delle passioni, dove non sentire niente e urlare, urlare più forte. La voce di Kurt, roca e sgraziata, tra il frastuono delle chitarre in crescendo. Il Nirvana, l’assenza di ogni preoccupazione. Questo mondo fa schifo ma, in fondo, chissenefrega. Nevermind.Proprio quest’ultima parola, oltre ad essere il titolo del più famoso album dei Nirvana, è il titolo della splendida graphic novel in cui Tuono Pettinato ci racconta il suo Kurt Cobain.
Prima di diventare l’ennesimo santino del rock, l’ennesimo martire-icona di una generazione, l’ennesimo membro di quel “club dei 27”, che i giornali e l’intera popolazione mondiale sembrano quasi compiacersi di veder aumentare, Kurt era una persona. Un bambino dolce e iperattivo, accompagnato ovunque dal suo amico immaginario Boddah. Un ragazzino segnato dai traumi di una situazione famigliare difficile, da un divorzio e da continui spostamenti. Un giovane della sua generazione, pieno di dolore, frastornato da un’esistenza opprimente, che cerca di sfuggire alle delusioni e alla sofferenza attraverso la musica e le droghe. E’ questo il Kurt di Tuono Pettinato.Boddah e il piccolo Kurt hanno le sembianze di Calvin e Hobbes di Bill Watterson. Un’intuizione geniale da parte dell’autore, dotata sicuramente di un certo sapore filosofico. Il nome Boddah, infatti ( come fa ottimamente notare Adriano Ercolani), ricorda quello del maestro spirituale che ha ispirato la dottrina della liberazione da ogni desiderio, inoltre, dietro i nomi dei personaggi di Watterson, non è difficile scorgere l’ombra di due filosofi: Giovanni Calvino e Thomas Hobbes. L’etica calvinista del lavoro, del profitto, della predestinazione e, soprattutto, del successo da una parte. Dall’altra, invece, c’è l’homo homini lupus di Hobbes. Due visioni del mondo, forse, gli estremi di un’unica contraddizione insolubile: quella tra l’alternatività e il mainstream, tra l’essere se stessi e la notorietà che schiaccia l’individualità.Cobain ha vissuto in pieno il problema di questo contrasto, la sua trasgressione è stata assorbita dal sistema, tutta la macchina del prodotto che lui odiava era la stessa nella quale era immerso e che, inevitabilmente, lo avrebbe reso immortale. La maledizione del successo, essere il portavoce di una generazione. Un’etichetta scomoda, un tradimento della ricerca personale di Kurt, del suo tentativo di essere se stesso. Così come Bob Dylan nel video di Subeterrean Homesick Blues( 1965), con quel ironico Suckcess, anche Cobain, quasi 30 anni dopo, ripete la stessa parola in Serve the Servants, la traccia iniziale di In Utero, pronosticando così ciò che lo avrebbe spinto a premere il grilletto. Il successo fa schifo, ci dice Kurt, e quando nemmeno il rumore delle chitarre riescono ad annientare il peso dell’esistenza c’è solo una strada da imboccare. Kurt e Boddah verso un silenzio ed una pace eterna. La morte. Il Nirvana.
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