"Bad company"/"Cattive compagnie"
di: R.Benton
con: J.Bridges, B.Brown, J.Davis, J.Savage, J.Hauser, G.Lewis, D.Huddleston.
Drammatico/western - USA 1972
Nessuno e' innocente. Oramai lo sappiamo. E lo sappiamo al punto da aver fatto dell'insieme delle nostre colpe il più inossidabile degli alibi per non
emendarle mai davvero. Tanto meno e' innocente un Paese - strano ibrido di Natura e Uomo - soprattutto se, e parliamo dell'America, nel suo incessante declinarsi al futuro, non di rado dimentica di guardarsi alle spalle e, sovente, solo per sbadataggine si avvede di ciò che gli sta intorno. Eppure in tutto questo, qualcosa d'innocente può esserci. Ed e' lo sguardo, l'adesione spontanea e in prevalenza "fisica" al mondo e alle cose che e' retaggio e privilegio - per quanto effimero - della giovinezza. America, allora, terra "giovane" per anagrafe sociale ed elezione; luogo dei sorrisi aperti e delle morti repentine; degli stupori più disarmanti e delle brutalità più cieche: dei sogni che mozzano il respiro e delle abiezioni che non vogliono saperne di smettere.
Nel 1864, con la Guerra Civile che ha già dispensato gran parte delle sue tragedie, sopravvivere si e' ridotto, ne' più ne' meno, che ad un esercizio di stile sul tema della buona o della cattiva sorte: una cosa che non ha più niente a che spartire, ad esempio, con l'applicazione rigorosa di un qualunque decalogo quotidiano. Vita e morte, in altre parole, si danno il braccio come su una pista da ballo: tanto vale danzare, quindi. E non prendersela troppo se il giro s'interrompe prima che la musica sia finita, perché se sei giovane, curioso e un tanto faccia tosta, potrebbe scapparci pure da divertirsi. Robert Benton - quello di "Kramer contro Kramer" (1979), di "Una lama nel buio" (1982) o "Le stagioni del cuore" (1984), per citare solo alcuni titoli - autore del testo di "Gangster story" (1967) per Penn, esordisce alla regia con questa sorridente ballata dai toni indolenti, gli sfrontati nonsense, i timidi
sgomenti attorno ai fuochi dei bivacchi; e dalle brusche accelerazioni di una violenza grottesca e "puerile" - approdo beffardo di adolescenze vagabonde e brade; "gioco" adulto ancora immune al suo inesorabile fiele - incentrato sull'affacciarsi all'esistenza di un gruppo di ragazzi sbandati su cui spiccano Jake/Jeff Bridges, giovanissimo (ventitré anni), eppure già significativo crocevia di questo "cinema nuovo" che comincia a scrutare con altri occhi "il
grande paese" - pensiamo a "L'ultimo spettacolo" (1971) di Bogdanovich o a "Fat city" (1972) di Huston - e Drew/Barry Brown - attore prematuramente scomparso nel '78 in penose circostanze - decisi, nonostante il fatto - o forse proprio in sua ragione - per cui "the times they are a-changin'" ("If your time to you/Is worth savin'/Then you better start swimmin'/Or you'll sink like stone"), a giocarsela,
in barba a qualsiasi legge, contro ogni avversità, oltre le evidenze di una vita che sotto le macerie della Secessione lascia intravedere il disgregarsi progressivo di equilibri tanto arcaici quanto ferrei ("Per cosa morirono, allora, 620 mila uomini, a cui vanno aggiunti i 275 mila che subirono gravi mutilazioni? Riassume lo storico Howard Zinn: 'L'elite settentrionale voleva l'espansione economica: nessun vincolo su terra e lavoro, mercato libero, dazi elevati a protezione dell'industria '. Il Sud schiavista, la cui economia era basata sulla piantagione, aveva necessita opposte: mantenere il serbatoio di manodopera gratuita assicurata dagli schiavi e abolire i dazi doganali, in modo da poter esportare liberamente i propri prodotti e importare i manufatti europei - superiori per qualità e inferiori nei costi rispetto alla concorrenza americana - "Americana", Maffi, Scarpino, Schiavini, Zangani).
Ingenuità, ribellismo, assecondare il corso degli eventi per gustarne appieno le non molte opportunità, uniscono e separano nel dipanarsi della vicenda Jake e Drew ma non ne minano mai l'amicizia di fondo, schiaffo alla solitudine e alle pieghe oscure del carattere; inestimabile ricchezza a portata di mano che neanche il denaro riesce a scalfire sul serio. Tutto nella cornice di una "wilderness" violata dagli abusi del conflitto ma nei confronti della quale la macchina del progresso non ha ancora chiuso l'assedio e che la fotografia di Gordon Willis vira nella prevalenza dei morbidi ocra, nel pastello turchese dei cieli impassibili, nei bruni pastosi delle praterie sconfinate e brulle, un attimo prima che il corso della Storia acceleri e predisponga il presente al rimpianto e all'elegia, incrociando, di quando in quando, volti e gesti che sembrano riprendere vigore dopo essere stati immortalati dalla memorialistica bellica delle istantanee di Matthew Brady.
Schivate le trincee, sfumato il sogno di un West munifico e magico, anche la presenza assidua della morte non e' più così triste. Meno ancora se di fianco c'è un amico. Simile impulso - disinvoltura come pozione a base di azzardo e strafottenza - guiderà l'illusione criminale, Colt in pugno: Butch e Kid non sono passati invano.
TFK
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