Il futuro di un mestiere antico
Che ne sarà del giornalismo nel 2014?
Grossi problemi, progetti da tenere d’occhio e probabili tendenze per una professione alle corde
ARTICOLO DI Andrea Coccia LINKIESTA
Orson Welles in Quarto potere, 1941
Il mondo del giornalismo sta affrontando da anni una crisi che si fa sempre più complessa. È una crisi totale, che contemporaneamente sta interessando gli organi di informazione di tutto il mondo da più punti di vista, prima di tutto da quello economico. Ma, come sempre in un contesto di crisi, si stanno sviluppando e proponendo nuove strategie e nuovi contenitori, per i quali l’anno che sta iniziando potrebbe essere decisivo.
Il grafico qui sopra, pubblicato un anno fa, mostra le esatte dimensioni del problema strutturale che il giornalismo sta vivendo: la pubblicità. Gli investimenti pubblicitari del 2012, infatti, se si confrontano i dati al netto della differrenza di inflazione, sono tornati al volume dei primi anni Cinquanta. E il dato più imbarazzante e preoccupante è che la pubblicità su web, che molti prospettavano – o almeno speravano – essere in grado di sopperire al crollo di quella su carta, si è dimostrata inconsistente e non ancora in grado di mantenere le imprese giornalistiche sopra la linea di galleggiamento economico.
Ma ci sono anche altre questioni in ballo. Qualche esempio? Il problematico e ancora scarsamente compreso dialogo tra carta e web, il cambiamento dei modi e dei tempi di fruizione dei contenuti da parte dei lettori, il divario tecnologico tra le vecchie e le nuove generazioni di giornalisti, ma anche di lettori, la scarsa agilità di redazioni, sovradimensionate e tecnologicamente non all’altezza, nate in un contesto storico ed economico radicalmente diverso da quello di oggi.
Insomma, il giornalismo sta attraversando una delle fasi più problematiche della sua storia, tanto che nessuno sembra ancora aver capito quale sia – e neppure se ci sia – la quadra, ovvero la ricetta che possa permettere a tutta la baracca di continuare a vivere, almeno per un po’.
Gli investimenti dei tycoon
La prima questione interessante del 2014 sarà capire che effetto avranno gli investimenti dei tycoon del calibro di Jeff Bezos di Amazon e di Pierre Omidyar di Ebay, entrambi decisi a marchiare a fuoco il 2014 giornalistico, mettendo sul piatto – in realtà due piatti leggermente diversi – 250 milioni di dollari a testa.
All’inizio di agosto del 2013 Jeff Bezos, con i suoi 250 milioni di dollari, ha rilevato il Washington Post. Come obiettivo per i prossimi anni si è dato quello di trovare il modo di farlo funzionare economicamente. Visto il punto di partenza che abbiamo delineato fin qui, la sfida che si è posto il fondatore di Amazon è di quelle gigantesche. Dalla sua però c’è un fattore abbastanza decisivo: non ha problemi di soldi. E, proprio per questo, pur non pretendendo di trovare da subito la quadra, ha dichiarato di voler andare fino in fondo, di voler sperimentare tutto ciò che ci sarà da sperimentare per far quadrare i conti e tornare a far produrre utili al Post. E vedendo quel che ha fatto con Amazon c’è da credergli.
Bezos viene da un’esperienza ventennale e di gran successo. La prima dichiarazione che ha fatto da nuovo proprietario del Washington Post è stata quella di voler importare il modello Amazon nel mondo dell’informazione: «Put the customer first. Invent. And be patient» ovvero metti al centro il cliente – il lettore, in questo caso -, inventati qualcosa e sii paziente. Staremo a vedere, per ora, tra i nuovi progetti del Washington Post c’è una piattaforma che si chiama Topicly, e che punta tutto su una delle parole chiave tra le nuove tendenze del giornalismo 2.0: essere visual e dare tutto al primo sguardo.
L’altro progetto da tenere d’occhio riguarda invece Pierre Omidyar, il quale ha puntato i suoi 250 milioni di dollari su Gleen Greenwald, ex giornalista del Guardian, a cui il fondatore di Ebay ha chiesto di mettere in piedi un progetto di giornalismo completamente nuovo. Per ora si sa soltanto che si chiamerà First Look Media e che si baserà su due progetti paralleli: il primo sarà di natura commerciale e servirà a creare i profitti necessari a far funzionare il secondo, che sarà invece una piattaforma no-profit la cui missione sarà quella di pubblicare e dare spazio al giornalismo indipendente e di interesse pubblico. Anche qui, a far sperare gli osservatori sulla buona riuscita del progetto c’è sicuramente il conto in banca di Omidyar, che pare assolutamente in grado di affrontare tempi magri in autonomia.
Le magnifiche sorti e progressive di Buzzfeed
Oltre al nuovo corso del Washington Post e all’esito della sfida lanciata da Omidyar, c’è un’altra realtà – ormai non più nuova – da continuare a tenere d’occhio. È Buzzfeed, il sito fondato nel 2006 da Jonas Pedretti, cofondatore dell’Huffington Post, diventato in pochi anni un vero e proprio punto di riferimento per tutti i produttori di contenuti al mondo. Buzzfeed infatti non smette di crescere. È arrivato a dicembre alla cifra record di 130 milioni di visitatori unici (solo a settembre erano 85), continua ad allargare la redazione (composta per ora da circa 300 persone), e a cercare nuove figure professionali.
Recentemente Buzzfeed ha anche lanciato una versione in spagnolo e in francese, dimostrando che l’allargamento di pubblico non è ancora finito. L’esempio di Buzzfeed è interessante da seguire per almeno due ragioni: la prima è che, se all’inizio si occupava solo di gallery virali e di gattini lollosi, ora sta ampliando l’organico per coprire sempre più ambiti, e alla grande, visto che tra loro ci sono anche dei premi Pulitzer, unendo a una forma comunicativa costruita per essere virale, a un contenuto sempre più di spessore.
La seconda ragione è economica. Se guardate la homepage di Buzzfeed e se sfogliate tra i suoi articoli noterete la mancanza di due elementi: i banner e le gallery. La cosa non è affatto banale, almeno se si considera che, per la maggior parte degli altri, questi due elementi sono la più grande fonte di introiti pubblicitari. La chiave del successo economico di Buzzfeed si chiama branded content, ovvero contenuti sponsorizzati, creati da Buzzfeed in collaborazione con il cliente e viralizzati attraverso il sito.
La sorte (incerta) dei progetti indipendenti di singoli giornalisti
Una delle tendenze più interessanti degli ultimi anni è poi quella alla disintermediazione, ovvero alla perdita da parte dei giornali del ruolo di intermediario tra i gli autori dei contenuti – i giornalisti – e i fruitori – i lettori.
Uno dei sintomi che rendono visibile questa dinamica è la perdita di peso, a livello di accessi diretti, delle homepage dei quotidiani a favore dei singoli contenuti. In pratica, i lettori, provenendo da motori di ricerca o da segnalazioni lette sui social network, arrivano sempre più spesso ai singoli contenuti piuttosto che alle homepage dei quotidiani, il che – allargando notevolmente la prospettiva – rende i produttori di contenuti paradossalmente sempre più indipendenti dal contenitore, sia per autorevolezza che per pubblico. Senza contare che social network come twitter, già da anni rendono accessibile direttamente a chi scrive un proprio pubblico, più o meno grande, che li legge indipendentemente da dove sia stato pubblicato il contenuto in questione.
Non sembra quindi un caso il fatto che, negli ultimi mesi, alcune firme importanti di prestigiosi quotidiani abbiano deciso di lasciare le redazioni nelle quali lavoravano per mettersi, per così dire, in proprio, trovando nuovi investitori e creando nuove piattaforme. È il caso del già citato Greenwald, che ha lasciato il Guardian dopo aver trovato in Omidyar un investitore-editore. Ma è anche il caso dei due giornalisti del Wall Street Journal, Kara Swisher e Walt Mossberg, grandi esperti di giornalismo tecnologico che hanno lanciato una nuova piattaforma indipendente chiamata Re/code.
Swisher e Mossberg hanno puntato tutto sulla loro esperienza, portando con sé l’intera squadra di giornalisti che avevano al WSJ – per il quale gestivano da anni il progetto AllThingsD – e fondando una società loro, la Revere Digital. Soci di minoranza saranno la Windsor Media di Terry Semel (già a capo di Yahoo) e da NBC.
Su cosa si punterà?
Nei giorni scorsi, con la fine dell’anno, in molti hanno provato a fare previsione e delineare tendenze. Il sito del Nieman Journalism Lab, per esempio, ha pubblicato una serie di contributi di esperti del settore per cercare di delineare le nuove strade che intraprenderà il giornalismo nel 2014. A conti fatti sembra che anche tra gli esperti regni un po’ di confusione, ma qualche linea guida emerge comunque. Le parole chiave sembrano essere Mobile e Visual
In tanti sembrano d’accordo con il Bezos-pensiero e indicano come strada maestra il fatto di mettere al centro il lettore. C’è chi dice che la tendenza sarà alla contestualizzazione dei contenuti, alla correlazione tra loro, e invita a smettere di buttare nel calderone migliaia di articoli e contenuti singoli destinati a disperdersi e a disperdere l’attenzione del lettore.
Per altri invece la strada maestra da percorrere sarà lavorare su piattaforme che propongano contenuti più grafici e visuali, pensati per essere socializzati e per essere fruiti soprattutto da dispositivi mobile. E che siano responsive, un termine che era stato sdoganato grazie all’espressione responsive design (riferita all’architettura dei siti, che devono adattarsi ai dispositivi su cui vengono visualizzati), e che ora si sta rinnovando nell’espressione responsive content, che si riferisce invece all’adattabilità dei contenuti in dipendenza degli utenti che li fruiscono.
Quest’ultimo sembra un argomento interessante, ma sembra ancora un po’ complesso vederne le applicazioni, e, nelle sue applicazioni più ambiziose potrebbe riguardare la possibilità di geolocalizzare e tempolocalizzare i contenuti offerti. In pratica uno stesso articolo, sfruttando i metadata forniti dai device usati dai lettori, potrebbe cambiare forma e dettagli del contenuto a seconda di dove e quando sia il fruitore. Uno stesso articolo, se letto sulla spiaggia di Ipanema in piena estate, o sul cucuzzolo di una montagna in pieno inverno, potrebbe cambiare. E d’accordo, se si parla di politica o di economia la cosa potrebbe essere ininfluente, ma quando si parla di trend, di costume o di consumi in genere, l’affare potrebbe essere goloso, soprattutto per gli inserzionisti.
A questo proposito sarà interessante seguire le vicissitudini di iBeacons, un progetto a cui sta lavorando Apple, e non solo loro. Si tratta di una tecnologia che permetterebbe, grazie a un sistema basato su bluetooth, di geolocalizzare l’utente con molta precisione, arrivando addirittura a sapere davanti a che barattolo di marmellata si trova all’interno di un supermercato, o che libro si sfoglia in una libreria. C’entreranno anche i micropagamenti e i wallet digitali, ma di questo, probabilmente, è meglio se ne parliamo nel 2015.