Analisi elaborata da Eutimio Tiliacos advisor Gabbrielli & Associati, past chairman Italian Linacre Society Oxford University, Socio Onorario Assoconsulenza Associazione Italiana Consulenti di Investimento www.assoconsulenza.eu
LETTERA ANESTI Gennaio 2014
Senza sosta manovravo la gran vela dell’aria.
Erano le montagne una spiaggia al cielo.
La tartaruga nel suo astuccio giallo
è l’orologio della terra
fermo da secoli
(Jorge Carrera Andrade “Poesia delle Americhe”)
Secondo le teorie fisiche non esiste un prima e un dopo, perchè alla velocità della luce -secondo le stesse teorie- il tempo si fermerebbe, sarebbe infinito. Non è questo il caso degli avvenimenti storici che, contrariamente a quanto a volte si afferma, non viaggiano alla velocità della luce e mantengono ben distinto un prima e un dopo; molto spesso con connotati ed esiti sorprendentemente diversi fra i due momenti.
Nel suo libro di memorie intitolato Vent’anni di Pace e di Guerra (ed. Mondadori 1969) Harold Macmillan, che nel 1957 fu nominato Primo Ministro in Gran Bretagna, così commentava il cambiamento epocale innescato da due fatti storici quali l’invasione tedesca della Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale e il bombardamento giapponese di Pearl Harbour : “Nel corso del 1941 ebbero luogo due avvenimenti che, oltre all’effetto sull’esito della guerra, hanno lasciato un segno permanente sulla struttura del mondo moderno…Entro la fine del 1942 si ebbe la certezza che la Germania prima o poi avrebbe dovuto cedere di fronte alla forza combinata degli alleati, la sconfitta del Giappone non sarebbe stata che un corollario….Tuttavia se stavamo per goderci un meritato sollievo, non potevamo sfuggire alle inevitabili conseguenze politiche ed economiche…Col passare dei mesi e degli anni cominciammo ad afferrare tutti i significati del nuovo equilibrio di forze creatosi sulla terra”.
L’economia è per certi versi molto simile alla storia. Dopo una lunga guerra per ripristinare l’equilibrio economico del sistema, come quella tuttora in corso, le condizioni potranno essere ricondotte ad una situazione solo apparentemente simile a quella ante 2007-2008, ma in realtà nulla sarà mai più esattamente uguale a prima.
Citando il fatto che dalla crisi è emersa una nuova mappa dei sottoscrittori dei debiti pubblici molto più arroccata nei patri confini o comunque nei mercati più affidabili e molto meno disposta a prendere rischi sovrani di altri paesi ad economia avanzata ma a basso tasso di sviluppo, il Fondo Monetario Internazionale (WP/14/27 http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp1427.pdf ) ha voluto richiamare l’attenzione sul fatto che i flussi di capitali dall’estero riguardanti gli investimenti nei titoli decennali del debito pubblico abbiano un impatto sul costo per interessi a carico dello stato emittente ben maggiore che non i flussi di domanda generati da investitori dello stesso paese in cui vengono emessi i titoli: “the factors driving the divergence in sovereign bond yields among advanced economies (AEs) from the perspective of foreign investor decisions: while we acknowledge the importance of fundamental macroeconomic, monetary, and fiscal policy determinants for explaining the dynamics of long-term sovereign bond yields in AEs, we focus our analysis on the impact of the foreign investor base (FIB) of sovereign debt, which has received less attention in cross-country studies and policy discussions”.
Il fattore di novità nel nostro caso non è infatti rappresentato dalla caduta degli spreads che pure ha interessato paesi quali l’Italia e la Spagna rispetto ai picchi del 2011 facendo gridare al miracolo, quanto il fatto che il fenomeno avrebbe potuto essere ben maggiore se non fosse cambiata sostanzialmente la natura dei sottoscrittori, con minore apporto di investitori dall’estero. Questo fenomeno tende ad assumere i connotati di un dato strutturale che provocherà ancora in futuro per un lunghissimo periodo condizioni di raccolta da parte degli stati interessati ben più onerose in termini di servizio sul debito (più alti tassi di interesse) di quelle che sarebbero possibili se gli investitori esteri fossero presenti nella stessa misura di prima del 2008 sul mercato italiano, spagnolo, greco o portoghese.
Esaminando i dati che vanno dal 2004 al 2012 in 22 paesi ad alto tasso di sviluppo riguardanti le emissioni di titoli pubblici a scadenza decennale, è emerso che in quei paesi dove, dopo l’esplodere della crisi, la percentuale di acquirenti esteri di titoli pubblici rispetto a quelli locali è andata crescendo si è generato un beneficio in termini di abbassamento dello spread variabile a seconda dei momenti fra 35 e 60 punti base negli USA, tra 20 e 30 nel Regno Unito e tra 40 e 65 in Germania (NB:65 punti base equivalgono ad un minor costo del denaro preso a prestito dello 0,65 %).
Per contro: la fuga di investitori esteri, anche se in parte (o in tutto) rimpiazzati come sottoscrittori del debito pubblico da investitori nazionali, ha comportato un aumento aggiuntivo dello spread compreso –per questo singolo fattore- fra 110 e 180 punti base (1,8 %) in Spagna e fra 40 e 70 (0,70 %) in Italia pari, nel nostro caso, ad un aggravio sulle casse dello stato e sull’ammontare di interessi da corrispondere di circa 11 miliardi di Euro all’anno. Si è anche visto come questo differenziale si ampli se la fuga riguarda privati investitori piuttosto che istituzioni.
Queste risultanze ci riportano a quanto abbiamo già illustrato e discusso nel numero di Ottobre 2013 di Lettera ANESTI (www.anesti.it > Lettera ANESTI > Ottobre 2013) in cui abbiamo dato conto della fuga di capitali bancari esteri dal nostro paese, che al momento non risultano esservi ritornati. Scrivevamo quanto segue a tale proposito: “uno studio pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale (“Fragmentation and Monetary Policy in the Euro Area” http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp13208.pdf ) mette in evidenza l’ammontare dei deflussi bancari che hanno interessato dal 2008 alla fine del 2012 i paesi periferici europei, quelli ossia che vanno sotto l’acronimo PIIGS ( Portogallo,Italia,Irlanda,Grecia,Spagna) . La registrazione riguarda la fuga di investimenti attuata dalle banche dei paesi cosiddetti “core” o di primo livello (Germania, Olanda, Francia) ed è espressa in termini equivalenti alla percentuale di PIL dei paesi che hanno subito la emorragia. Il fenomeno ha registrato movimenti imponenti.
Nel caso dell’Italia sono state dismesse e rimpatriate dalle sole banche tedesche, olandesi e francesi risorse preventivamente impiegate a vario titolo in Italia per un ammontare equivalente rispetto al PIL rispettivamente del: 5,2% (dalle banche tedesche) 4,9% (da quelle olandesi) 5,2% (da quelle francesi); per un totale pari al 15,3% del PIL italiano.Nello stesso periodo sono state ritirate sempre dalle banche tedesche, olandesi e francesi risorse investite in altri paesi periferici pari ad una percentuale del PIL del 17,4% dal Portogallo , del 18,1% dalla Spagna , del 20,7% dalla Grecia e del 71,3% dall’Irlanda (“Cross border banking flows have declined. Both core and periphery banks have retrenched throughout the crisis, withdrawing capital to domestic markets and reducing their foreign lending. The departure of capital from the periphery is most pronounced, with core banks, including from France and Germany, substantially reducing their exposure to these economies since the start of the crisis (amounting, for each of the French and German banks, to some 5-10 percent of GDP in Italy and Spain, and even higher in Ireland”, IMF October 2013).
In termini assoluti se andiamo a riportare tali percentuali ai valori effettivi del PIL in miliardi di euro come forniti da Eurostat (Italia € 1.567 mld , Spagna € 1.029 mld , Grecia € 193 mld , Portogallo € 165 mld e Irlanda € 163 mld) la classifica dei deflussi attuata dalle banche dei paesi “core” finisce con l’essere la seguente: 1) dall’Italia verso Germania, Olanda e Francia sono defluiti € 239,7 miliardi 2) dalla Spagna € 186,2 3) dall’Irlanda 116,2 4) dalla Grecia 39,9 5) dal Portogallo 28,7. Come dire complessivamente un salasso di 610, 7 miliardi di euro in cui l’Italia ha fatto (in negativo) la parte del leone. Anche se in parte compensati da un rientro di risorse bancarie dei paesi PIIGS impiegate altrove, il saldo netto è pur sempre fortemente in deficit e rallenta la ripresa dei paesi periferici pesando sulle capacità di credito interno delle banche a famiglie e aziende”.
Si comprende da questi dati che –ove la situazione perdurasse e l’Italia non riuscisse ad attrarre in misura confrontabile al passato investitori esteri sul nostro mercato dei titoli di stato- anche qualora si riuscisse a piazzare periodicamente l’intero debito pubblico nazionale, il gravame di interessi sarebbe maggiore di quello possibile con un mix mediamente più internazionale di sottoscrittori. Paradossalmente (ma poi neanche tanto) questo aspetto è collegato intimamente alla capacità di fare politica industriale. Ossia il vero motore della attrazione di capitali dall’estero non solo nel settore industriale ma verso tutti i comparti della economia e pertanto anche verso il debito pubblico, è la politica industriale nella misura in cui essa sia in grado di assicurare una crescita sostenuta dell’economia.
Già ora è possibile constatare come l’Italia sotto questo profilo offra scarse attrattive agli investitori esteri. Pur essendo il secondo paese manifatturiero d’Europa dopo la Germania, l’incidenza del valore aggiunto dell’industria (compreso il settore delle costruzioni) sul valore aggiunto totale dell’economia è in Italia, secondo EUROSTAT e BCE, del 24,8 % : non troppo dissimile dal 23,3 % del Regno Unito che pure ha il suo punto di forza nei servizi finanziari e non (più) nella manifattura e molto al di sotto della Germania che registra un valore del 30,8 %, dell’Irlanda 31,3 %, della Polonia 32,9 % e persino della Slovacchia 36,0 % e della Repubblica Ceca 37,0 %.
Questo vuol dire che ci sono paesi che si sono ritagliati, attraverso una adeguata politica industriale, uno spazio importante a livello internazionale nei settori delle tecnologie innovative che generano un alto valore aggiunto mentre questo non è ancora avvenuto in Italia. C’è di più : sembra di poter affermare da certi comportamenti osservati che l’Italia persegua un atteggiamento non solo semplicemente passivo ma in molti comparti della attività pubblica e privata addirittura ostruttivo verso le nuove tecnologie. L’Italia è infatti uno dei paesi che pone le più alte barriere alla innovazione sostenendo negli organismi internazionali il mantenimento di standard industriali e costruttivi intesi a tutelare prodotti e sistemi oramai obsoleti.
Nel corso della Sesta Conferenza Europea sullo Spazio, convocata dalla Commissione Europea a Brussels il 28 e 29 Gennaio scorsi, si è discusso ampiamente di questi temi riferiti al comparto specifico delle tecnologie satellitari, ma il discorso potrebbe valere per tutti i comparti. Gli intervenuti hanno convenuto sul fatto che le possibilità di utilizzo di nuove tecnologie finalizzate alla razionalizzazione del sistema di trasporto di passeggeri e merci su tratte extraurbane, come pure di sistemi urbani di trasporto intelligente (ITS) o di sistemi in generale a basso impatto ambientale e basso consumo di energia, siano ancora sterminate e potrebbero generare, se applicate coerentemente attraverso adeguate politiche industriali, consistenti aumenti di reddito e occupazione in tutta l’Europa e in particolare in Italia.
Uno strumento ancora non utilizzato per la creazione di un tessuto commerciale europeo recettivo alle nuove tecnologie è quello proposto in sede di conferenza da Francois Auque, capo della divisione Sistemi Spazio di Airbus, il quale ha suggerito di adottare a livello europeo da parte della Commissione un meccanismo di premialità per quei territori che facciano uso di tecnologie satellitari: “se nell’utilizzo di fondi strutturali i territori beneficiari prevedono l’uso intensivo di nuove tecnologie e fra esse in particolare di quelle satellitari, verrebbe assicurato loro un bonus di fondi extra da utilizzare per altri progetti”: mi piace !!!!
Eutimio Tiliacos