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Ni una màs

Creato il 26 agosto 2014 da Eloisa @EloisaMassola
Ni una màsL'importanza delle parole e quella (relativa) dei dati statistici
Tempo fa mi sono imbattuta in questo post di Emiliano Rizzo, che ("dati ufficiali alla mano"), pretendeva di negare l'esistenza della violenza contro le donne, riducendo il femminicidio ad una sorta di menzogna sinistroide e veterofemminista. Che paura.
Del resto si sa che certi negazionisti amano il potere dei numeri, delle statistiche, delle percentuali, preferendo sorvolare, au contraire, sulla precisione e sull'importanza delle parole.
Rizzo, infatti (e con lui molti altri), confonde i termini "femmicidio" e "femminicidio", pretendendo di sconfiggere a suon di dati e di tabelle quello che è, a tutti gli effetti, un fenomeno culturale - difficilmente analizzabile col semplice ausilio della matematica.
E' stato proprio sulla scia dell'irritazione suscitata in me dall'articolo di Rizzo che ho scritto l'introduzione del mio laboratorio didattico sulla violenza contro le donne, di cui pubblico, qui di seguito, la prima parte.
«Se si cerca il termine “femminicidio” sugli ultimi vocabolari (cartacei o digitali che siano), ci si troverà di fronte ad una laconica definizione, che recita: "Femminicidio: uccisione di una donna". In realtà, se si ripercorre la storia di questa parola, considerando al contempo la vastità e la diffusione del fenomeno (solo nel nostro Paese, le donne uccise nel 2012 dalla violenza di genere sono state 124 [1]), si intuisce immediatamente come quella del “femminicidio” sia una realtà ben più complessa ed eterogenea, destinata a comprendere anche altri aspetti – oltre a quello (definitivo) della violenza fisica e dell’assassinio.
  La parola “femminicidio” (per alcuni dal sapore un po’ troppo barricadiero: forse è per questo motivo che molti dizionari editi negli anni ’80 e ’90 preferiscono ignorarla) viene utilizzata per la prima volta dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, che definisce con questo vocabolo
[…] la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale (…) che, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia.
Ni una màs
Il “femminicidio” è dunque l’insieme di atteggiamenti misogini presenti all’interno di una determinata società o di un gruppo sociale – che possono condurre all’uccisione di persone di sesso femminile. Si tratta di un fenomeno complesso e, come tale, difficilmente quantificabile a suon di statistiche.
  Diverso è il termine “femmicidio”, coniato dalla criminologa statunitense Diana Russell nel suo saggio Femicide: The Politics of woman killing (1992) allo scopo di fissare una nuova categoria criminologica, fino a quel momento mancante:
Il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio ed include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine. 
Chiunque voglia affrontare il problema (penso in modo particolare ai “negazionisti”, che ottusamente rifiutano l’idea della sopravvivenza, nel mondo occidentale, di una radicata violenza di genere) dovrebbe innanzi tutto tenere conto della varietà del lessico a disposizione e altresì comprendere che citare numeri e percentuali non è sufficiente a focalizzare un problema culturalmente articolato e diffuso capillarmente come quello del femminicidio.
  Esiste infatti un filo rosso che collega misoginia e mentalità patriarcale agli episodi di violenza contro le donne compiuti nella storia e nel mondo, sino ai giorni nostri. Un filo che, se dipanato, crea una fitta e drammatica rete di soprusi: lo stupro utilizzato come arma di guerra e strumento di prevaricazione; l’infibulazione e le mutilazioni genitali femminili; lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile; la violenza domestica in ogni sua forma; la pratica del sati in India, che costringe le vedove ad immolarsi sulla pira funeraria del marito; le numerose e striscianti forme di sfruttamento e mercificazione del corpo e della sessualità femminili - anche da parte dei mass media…  Sono solo alcuni degli orrori e delle ingiustizie connessi alla negazione della libertà femminile. Dinanzi a un panorama così desolante, è fondamentale non solo tentare di prevenire la violenza in quanto tale (come sembra prefiggersi l’attuale controversa legge italiana contro lo stalking), ma anche (e soprattutto) cercare di modificare quel retaggio culturale maschilista di cui le donne sono a tutt’oggi prigioniere e vittime. Proprio per questo il decreto anti-femminicidio approvato in Italia nel mese di agosto del 2013 non ha convinto chi si occupa in prima linea di violenza di genere: esso prevede un sostanziale inasprimento delle pene, ma non menziona alcuna linea risolutiva per ciò che concerne il problema della “tratta” delle prostitute né stabilisce lo stanziamento di fondi per la prevenzione e in favore dei centri anti-violenza, che sono sempre meno numerosi e spesso mancano delle risorse economiche necessarie ad agire in maniera efficace sul territorio. [2]
  Eppure proprio la prevenzione e l’educazione emotiva degli adolescenti e dei giovani sembrano essere le uniche due strade praticabili, se si desidera arginare e ridimensionare in futuro il problema della violenza di genere.
  In particolare, è necessario educare (tanto i ragazzi quanto le ragazze) a conoscere la donna, la sua sessualità e il femminino e a sviluppare le doti dell’empatia e della com-prensione, se si vogliono prevenire storpiature e aberrazioni come quelle elencate poc’anzi.»

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