NICE Workcamp – Asakura/Haki – primo giorno

Creato il 15 marzo 2012 da Newfractals @NewFractals

Continua il Viaggio nel Paese del Sol Levante

Dopo una notte tormentata all’ottimo ostello kahosan di Fukuoka (i giapponesi amano riscaldare le stanze a temperature uterine, e non lo avevo capito… ero felice sotto le mie coperte quando qualcuno ha acceso il condizionatore d’aria, impostato sui 26 gradi, che sembra lo standard del riscaldamento del paese), vicino alla centralissima Hakata station, mi sono messa in viaggio per arrivare ad Haki.

Viaggiare in Highway Bus non è difficile, soprattutto se non si ha paura né vergogna a chiedere aiuto in inglese a persone che non parlano inglese. Un po’ a gesti, un po’ indicando la scritta Haki, sono riuscita a farmi spiegare da una delle signore della biglietteria come usare una macchinetta automatica per prendere il biglietto (che mi è stato consegnato cerimoniosamente dalla bigliettaia stessa, tenendolo a due mani) e a farmi dire da quale terminal sarebbe partito il bus.

Arrivata ad Haki individuare le uniche due volontarie ad essere arrivate prima di me è stato facile: una, bionda e occhi azzurri, viene dall’Estonia, e l’altra capelli rossi, viene dall’Italia.

Dopo un’altro po’ di attesa, durante la quale ho comprato una lattina di cioccolata calda da un distributore automatico (ce n’è uno praticamente ogni 10 metri nelle città più popolose, ma anche ad Haki non si scherza) siamo stati raggiunti dal nostro capo gruppo e dagli altri volontari.

La brutta notizia è che, anche se la lingua ufficiale del campo è l’inglese, in realtà la maggior parte delle cose vengono dette in giapponese, anche perché la gente del posto evita di parlarlo (anche se almeno in un’occasione è sembrato che una persona lo capisse). La buona notizia è che siamo stati subito accolti con una di quelle che sembra una tipica creazione del kodomo art festival, che dimostra secondo me parte del Giappone che ci piace di più! Anche i compagni del campo di lavoro sembrano persone simpatiche e gentili… Sforzandosi si riesce addirittura a farli parlare inglese, se ce ne è tempo.

Mentre gli altri andavano a rilassarsi in un onsen (bagno termale per cui i giapponesi vanno pazzi a tutte le età), io ed altri due volontari abbiamo svolto il nostro turno in cucina, riuscendo in qualche modo a preparare un maiale al curry niente male (da accompagnare a riso bianco), nonostante la cucina fosse essenzialmente composta da un fornelletto e qualche attrezzatura disposta su dei banchi di scuola (o tavoli simili), senza un lavandino al piano (bisogna scendere a prendere l’acqua di sotto). Con un po’ di fortuna nei prossimi giorni riesco anche ad imparare un po’ di cucina locale!  Stasera si è parlato di fare nei prossimi giorni degli onigiri.

Mentre cucinavamo sono entrate tre persone, una delle quali è uno degli artisti che parteciperanno al festival. Come unica straniera nella stanza mi sono sentita solo leggermente a disagio, visto che ormai ho capito che devo farci l’abitudine… e che alla peggio inchinandosi profondamente si dimostra quantomeno buona volontà. Sono riuscita a presentarmi decentemente in giapponese (credo) e ho anche fatto uso di una conoscenza acquisita circa mezz’ora prima: ovvero a riconoscere la frase giapponese che sta per “in Italia, dove abiti?” (con sorpresa del principale cuoco della serata, che stava già per tradurmela una seconda volta).

L’artista era incredibile! Con il suo kimono colorato, ma soprattutto con i suoi modi estroversi e i gesti allo stesso tempo ampli e aggraziati, sembrava davvero uscito da un manga. Ma allora tipi così esistono! Non saprei descriverlo, ma forse chi legge i manga giusto, vede gli anime giusti, ha già capito. Nei prossimi giorni cercherò di farmi venire in mente un paragone, ma è difficile!

Ci è stato fatto gentile dono di “ciabatte” personali per quando siamo a dormire nell’ospedale (nel posto in cui lavoriamo ne usiamo invece di generiche).

Mi piacerebbe a questo punto raccontare un po’ più in dettaglio le usanze in fatto di calzature: le regole sono piuttosto semplici:

  • ti togli le scarpe sull’ingresso e se non sei uno degli abitanti/abitudinari del potso metti le ciabatte generice riservate agli ospiti.
  • sul tatami si va solo scalzi.
  • il bagno ha le sue ciabatte speciali, che devono sempre essere usate in bagno e che devono essere usate solo lì.

Dato che noi alloggiamo in una camera molto grande che non è completamente coperta dal tatami (lungo il muro c’è una sorta di “corridoio” non coperto da tatami”, quando ci spostiamo velocemente chi ha scelto di stare sul tatami deve correre, a volte dall’altra parte della stanza, a recuperare le proprie ciabatte.

In terrazzo, molto grande, possono uscire solo due persone alla volta: le ciabatte servono solo per gli interni, non certo per un terrazzaccio da ultimo piano, e abbiamo a disposizione solo due paia di sandali: di conseguenza, solo due persone alla volta possono uscire.

Questo mi fa riflettere… Noi occidentali sicuramente ci facciamo problemi per altre cose che magari ad un occhio alieno sembrano poco sensate, ma quali?

Di sicuro i giapponesi riescono facilmente ad affrontare questo problema e riuscire allo stesso tempo ad essere efficientissimi in cose che noi italiani neanche ci sogniamo. Forse passare la vita a seguire con estrema attenzione regole così arbitrarie rende più facile mettersi in moto quando si deve fare qualcosa di davvero importante?


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