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Nichi Vendola riassume in sé il peggio di molti tipi umani che detesto anche quando danno il meglio di sé (cosa che accade molto raramente). Del cristiano ha il culto di un protocristianesimo tutto letterario, malamente scopiazzato dalla cattiva lettura che Pier Paolo Pasolini fece di Alfred Loisy, ma anche la visione salvifica del momento fusionale (comunità come eucaristia, società come corpo mistico), di una prossimità vissuta non come relazione ma come evento. Del cattolico ha il rispetto per quanto di irrazionale v’è nella pietà popolare e nei rituali della superstizione tribale del mitologico Sud cattolico, con qualche alibi scientifico costruito sulle tesi di Ernesto De Martino e molto umore rustico rubato a Rocco Scotellaro. Poverino, non afferra che il cattolicesimo tirreno e ionico è tutto sanfedista. Del politico ha il peggio di ciò che sta in un populista e qui, per non dilungarmi troppo, piglierei dalla sua scheda autobiografica: “Ho un anello al pollice, regalatomi da un pescatore di Mola di Bari, era la fede di sua madre: rappresenta per me una specie di matrimonio con il popolo” (nichivendola.it). A confronto con l’orsacchiotto plastica che una bambina donò come portafortuna a Sergio Cofferati quando era candidato a sindaco di Bologna, e che Sergio Cofferati dice di portare sempre in tasca (Linus, 442/2004 – pag. 5), l’anello al pollice è vomitevole. Ma il peggio del peggio Nichi Vendola lo dà da comunista e, ancor più, da comunista italiano, perennemente in assetto tattico, sempre a traino di una retorica da difficile ma indispensabile compromesso, sempre dolente in ogni sorriso, sempre un po’ falso in ogni invettiva. Dell’oratore nato, che è un tipo umano fra quelli che più detesto, ha l’inclinazione al lessico affabulatore con l’uso del climax a triplette. Fateci caso: Nichi Vendola usa sempre tre perifrasi per ogni immagine, sempre tre sinonimi per ogni sostantivo, per ogni aggettivo, per ogni verbo, per ogni avverbio, e parla come se pigliasse da un intimo universo di sensazioni che somiglia a un dizionario dei sinonimi. Sarebbe stato un ottimo sommelier, di quelli che paiono trovare il termine prezioso o ardito nel naso, nel palato o perfino in trasparenza. Del narcisista ha il vittimismo trionfante. Del gay ha quell’ostentata smania di mostrarsi sobrio che è assai più irritante dell’ostentata smania di mostrarsi trasgressivo. Insomma, Nichi Vendola non mi piace, non mi piace proprio. E questa era la premessa.
Ora, un lettore mi chiede di commentare alcune sue dichiarazioni al margine del congresso fondativo di Sinistra, ecologia e libertà: “Afferma che occorre dialogare con il mondo cattolico, rifuggendo l’anticlericalismo… «La cosa peggiore – dice – è chiudere la discussione prima che cominci. Io voglio parlare delle questioni eticamente sensibili, ne voglio parlare anche con la Chiesa»” (corriere.it, 24.10.2010). Direi: signor governatore, le chiamano “questioni non negoziabili”, che vuole negoziare? Nel caso che alle prossime elezioni politiche – Dio non voglia! – lei fosse il leader dello schieramento avverso a quello guidato da Silvio Berlusconi (al quale peraltro somiglia moltissimo, ma su questo parleremo un’altra volta), la Chiesa con la quale lei intende parlare, discutere e trattare non avrebbe da far altro che accennare obliquamente al fatto che lei è cattolico e vive nel peccato, è comunista e perciò lontano dal magistero sociale, per levarsi il fastidio (odia discutere, le piace dare precetti): sarebbe trombato prima ancora di offrire un negoziato. Fatta eccezione per qualche prete che conta meno del due di briscola, fatta eccezione per qualche cattolico che si sente adulto, per la Chiesa è meglio un puttaniere che un ricchione, ma naturalmente dietro l’apodittico qui c’è una questione antropologica che va ben oltre il suo culo. Per quanto mi riguarda, io non la voterò mai. Dunque non è lei che rifugge l’anticlericalismo. Sono gli anticlericali come me che fuggono lei.
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