Ho una relazione complicata con Nicolas Winding Refn. No, non è il mio status sentimentale su Facebook, anche se potrebbe diventarlo, solo una semplice constatazione cinematografica. Le prime volte che ho sentito parlare del regista danese, era su qualche rivista in cui veniva definito il Tarantino europeo o qualcosa del genere. È scattata un’immediata curiosità nei suoi confronti, ovvio, e anche una naturale diffidenza, considerando come spesso, ogni volta che spuntava fuori un nuovo Tarantino, e negli anni Novanta se ne inventavano uno al mese, si rivelava una ciofeca. Ormai però la voglia di vedermi qualcosa di suo era troppo alta e così ho recuperato Bronson. Bronson mi ha tolto le verginità refnaniana con brutalità, una brutalità che poi avrei capito essere una caratteristica tipica di Winding Refn. La violenza del regista danese è però qualcosa di diverso da quella esagerata e quasi cartoonesca di Tarantino. In Refn c’è più cattiveria e meno divertimento. Meno citazionismo cinematografico e più realismo. Bronson però, più che Tarantino, mi ha ricordato lo stile di Stanley Kubrick. E sticazzi. Da un paragone impegnativo a un altro ancora più proibitivo. Prima di gridare al nuovo Arancia Meccanica c’è comunque da frenare. Da frenare parecchio. Bronson è un film visivamente notevolissimo, mostra un Refn in stato di grazia dietro la macchina da presa, eppure la pellicola non mi ha coinvolto un granché. La pecca principale è la sceneggiatura, firmata dallo stesso Refn, che non consente di avvicinarsi molto al protagonista, il bruto e psicopatico Michael Gordon Peterson in arte criminale Charles Bronson, e che racconta la storia vera di quello che è stato definito “il più violento prigioniero britannico”, uno che ha passato gran parte della sua vita dietro le sbarre e per giunta in isolamento. D’altra parte è un pazzo pericoloso che al confronto a ritrovarti Hannibal Lecter come compagno di cella ti va ancora di lusso. In pratica, una pellicola impressionante da un punto di vista cinematografico, ma fredda a livello emotivo e piatta a livello di idee di sceneggiatura. Però cazzo se Refn è bravo a girare! E così sono andato avanti con la visione delle sue pellicole.
Il mio Refn numero due è stato Valhalla Rising. Se Bronson mi aveva preso a pugni in faccia con la sua violenza, questo invece mi ha steso. Ma non con un pugno, magari! Mi ha steso nel senso che mi ha annoiato, mi ha mandato in coma come poche altre visioni. Per qualcuno questo è un film dal notevole fascino, per me è come una razione doppia di Valium. Le mie quotazioni personali e la mia fiducia in Refn sono così crollate a picco. Va detto che pure qui a livello puramente di riprese il danese non ha realizzato una pellicola brutta, nient’affatto. Peccato si sia dimenticato di accompagnare alle immagini una sceneggiatura. O anche solo un abbozzo di sceneggiatura.
"E staccate 'nattimo, Winding Refn, che sei più
appiccicoso della Eva Mendes..."
Entusiasta di Drive, per un po’ ho preferito lasciare le cose così. Nell’idillio amoroso per quella pellicola. Fino ad adesso. In occasione dell’uscita del suo nuovo film, il nono della sua carriera, Solo Dio perdona - Only God Forgives, ho deciso di recuperare anche tutti i suoi precedenti lavori che ancora mi mancavano. E ne ha fatti. È persino troppo prolifico, per i miei gusti. Forse dovrebbe rallentare un po’, il Driver danese, e dedicare più tempo a sviluppare i suoi progetti e le sue sceneggiature, che rimangono sempre il suo tallone d’Achille. Anche se, in parte, mi sono dovuto ricredere rispetto alle sue capacità di scrittura. La trilogia di Pusher, di cui ho parlato in due post a parte, uno dedicato al primo film, un secondo agli altri due, segna infatti un Refn in discreta forma persino come sceneggiatore. Sebbene il suo talento, la sua skill principale è sempre la regia, poco da fare. E veniamo così ai suoi due film meno noti, quelli che ancora mancavano alla mia Refn-cinerassegna, realizzati a livello temporale a cavallo tra il primo e il secondo capitolo della serie di Pusher. Che poi, a dirla tutta, il danese ha in curriculum anche la regia del film per la tv Miss Marple - Nemesi, tratto da un romanzo di Agatha Christie, ma questo lo lascio ai fan hardcore di Refn.
"Ce l'hai l'ultimo consigliato da Cannibal Kid?"
"No, qui non teniamo le raccolte di Peppa Pig..."
Bleeder è un gioiellino. Un film sul niente, fatto di niente, eppure un gioiellino prezioso. Refn adotta lo stesso stile registico di Pusher e utilizza lo stesso trio di attori: Kim Bodnia, Mads Mikkelsen e Zlatko Buric, togliendo dall’addizione giusto l'elemento droga. Il suo posto è qui preso dalla passione dei protagonisti, e in particolare del personaggio interpretato da Mads Mikkelsen, per i film. Un’ossessione quasi maniacale, con cui il suo Lenny si va ad aggiungere alla schiera di (anti)eroi silenziosi del cinema di Refn. Lenny infatti non parla, se non di cinema. Il suo lavoro? Ovviamente in una videoteca. D’altra parte siamo pur sempre a fine anni ’90 e all’epoca, pensate un po’, le videoteche esistevano ancora. Vivevamo in un mondo senza banda larga in cui i film li vedevamo ancora su VHS, pensate un po’ che popolo primitivo eravamo. Lenny non combina un granché nella sua vita, a parte guardare un sacco di film e quindi, chissà perché?, mi ci sono immedesimato parecchio nel suo personaggio… Il suo migliore amico, il protagonista del primo Pusher Kim Bodnia, è un cliente della videoteca. Lui è meno fissato con i film e più con la violenza. Dopo aver saputo che la sua tipa è incinta, non la prenderà proprio bene…
"Hey, un momento... Ecco qua l'ultima stagione completa di Peppa!"
Variante di questa pellicola rispetto alla formula refniana collaudata nel primo Pusher e ripresa poi nei due successivi capitoli della trilogia, è la presenza di una donna tra i protagonisti. Nel cinema molto al maschile (non ho detto maschilista) di Refn, è un vero evento, bissato in parte con la Kristin Scott Thomas dell'ultimo Solo Dio perdona. In Bleeder, la femmina presente è Lea, una ragazza che lavora in una tavola calda e, a parte essere corteggiata maldestramente da Mads Mikkelsen, pure lei non è che combini un granché. A interpretarla troviamo Liv Corfixen, nella vita reale diventata moglie di Refn. In pratica, i protagonisti non fanno niente di che, non vanno da nessuna parte e in questo film non capitano grandi cose. Qualche scena di violenza c’è, se no non sarebbe un vero lavoro di Refn, è un film più parlato rispetto alle sua altre opere, con dialoghi talmente cinefili da risultare quasi tarantiniani, e la cosa che colpisce di più sono i personaggi. Sempre dei disperati, però più umani rispetto ad altri ritratti dalle pellicole del danese. Se per quanto riguarda Bronson e Valhalla Rising ho criticato le doti di Refn come sceneggiatore, con la trilogia di Pusher e ancora di più con questo Bleeder mi devo in parte ricredere. Facendo un film basato sul nulla o quasi, è riuscito a tenere in piedi un’ora e mezzo di cinema crudo, realista, costruito su dei personaggi enigmatici e intriganti. E poi ci ha regalato un finale inaspettatamente romantico, quasi un’anticipazione di Drive. Perché anche i danesi, dietro quei modi di fare algidi e autoritari (qualcuno ha menzionato Lars Von Trier?), nascondono un cuoricino. Chi l’avrebbe detto? (voto 7,5/10)Fear X (Danimarca, Canada, UK, Brasile 2003) Regia: Nicolas Winding Refn Sceneggiatura: Hubert Selby Jr., Nicolas Winding Refn Cast: John Turturro, Deborah Kara Unger, James Remar, Stephen Eric McIntyre, William Allen Young, Gene Davis, Nadia Litz, Liv Corfixen Genere: thrilla
Con Refn ho una relazione complicata, ve l’ho detto subito. Non si sta quindi qui a celebrarlo sempre e comunque. Lo si applaude, quando c’è da applaudirlo, e lo si fischia quando c’è da fischiarlo. Fear X non è un film da fischi, però è qualcosa di forse peggiore. È un film anonimo. Tra le pellicole di Refn, è la meno refniana e affascinante. Qualche lampo del suo talento registico lo si intravede, ma è poca cosa. Fear X appare come un thrillerino medio poco riuscito e dimenticabile. Il classico incidente di percorso.
Refn con Pusher era diventato il nuovo fenomeno del cinema danese e con Bleeder aveva confermato di possedere una sua precisa cifra stilistica. Dopodiché ha fatto il tipico passo più lungo della gamba. Ha girato il suo primo film in America quando non era ancora pronto. Fear X è stato il suo debutto sul suolo degli Stati Uniti e si rivelerà un discreto flop. Giusto così. È una doccia fredda che ha fatto bene al freddo danese, che avrà modo di fare il suo trionfale ritorno a Hollywood qualche anno più tardi, con il progetto giusto, ovvero Drive. Per quanto nemmeno malaccio come film, ciò che sconcerta di Fear X è la sua mediocrità. Una mediocrità da cui Refn in tutte le sue pellicole, persino nel da me tanto detestato Valhalla Rising, si è sempre tenuto lontano.
"Dexter, figliolo, vieni fuori!"
Di cosa parla, questo film? Presto detto. Il protagonista è l’addetto alla sorveglianza in un centro commerciale ed è ossessionato dalla morte della moglie, uccisa in circostanze misteriose da un assassino rimasto a piede libero. Ogni suo pensiero va a questa tragedia e ogni cosa che fa è tesa alla ricerca del killer. Se già state pregustando un thriller tesissimo, non è questo il caso. Refn punta a costruire la tensione in maniera lenta e avvolgente. Cosa che per la prima parte della visione riesce anche a coinvolgere, ma dopo un po’ il giochino stufa. Per movimentare la vicenda, Refn fa allora muovere il suo personaggio. Lo fa passare all’azione, mano a mano che si avvicina all’assassino. Tutto il film, e soprattutto la prima parte, è costruita sull’interpretazione di John Turturro. Un’interpretazione anche valida, non sto a discuterne, però il Turturro è uno di quegli attori che a me non hanno mai detto nulla. Troppo coeniano, chissà? Nonostante in genere mi piacciano gli interpreti fissati con le parti da pazzoidi o tipi strambi, in cui Turturro è specializzato, lui è un pazzoide che non mi piace. Qui più che pazzoide, è un uomo ossessionato dal conoscere la verità. Sapere il perché la moglie è stata uccisa. C’è chi guarda The Voice, c’è chi guarda Masterchef, lui invece nel tempo libero si guarda i nastri di videosorveglianza, per trovare qualche indizio sul killer. Ognuno si diverte come preferisce…"Sì, sono un pazzo stalker psycopatico, ma no, non sono Dexter..."
La vicenda nella seconda parte si allarga poi ad altri personaggi, coinvolge anche un poliziotto interpretato dal papà di Dexter James Remar, acquista un maggiore respiro, ma via via che ci si avvicina alla risposta, più la storia perde fascino, come accade in molti thriller. Come accade in molti thriller medi. Un peccato in cui scivola anche un Refn lontano dal suo solito cinema. Un Refn pure bravo a far crescere la tensione in alcuni tratti, ma non supportato da una sceneggiatura all’altezza, che si risolve in un nulla di fatto. Di molto refniano c’è comunque soprattutto una scena verso il finale ambientata in un’ascensore. So già cosa state pensando: Refn + ascensore = magia. In Drive sì, è così. Qui la scena è invece decisamente meno indimenticabile. Così come il resto del film, che pure si lascia vedere, ma senza lasciare traccia. Non come sanno fare gli altri lavori del regista danese, sia nel bene che nel male. E se la cosa più tesa dell'intera pellicola sono i titoli di coda, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona, caro Refn. (voto 5,5/10)