Nel nostro Paese si profilarono allora due condizioni, si imposero due riconoscimenti, e parlo dei più immediati: da una parte tutti coloro che non avendo vera lingua, né ideali, né memoria sembrarono meritare tutto e furono in realtà, del tutto alimentati e condotti per mano verso le terre della Salvezza; dall’altra parte un esile gruppo, individui che proprio la lingua (ancora italiana e colta) e gli ideali e la memoria – la passione della memoria – rendevano vagamente sospetti e inaccettabili. Questa condizione col tempo, nel furore di vita, che caratterizzò l’Italia del dopoguerra, parve dimenticata. Ma così non era: e chi era tra i rappresentanti di quell’esile gruppo; chi non imparò quella lingua, non importa il modo purché fosse in grado di cancellare la propria; chi non abbandonò con le sue memorie fiorentine o romane o napoletane o venete, anche le memorie d’Europa e della classica America; chi non vide giunto il momento di gettare a terra, e spezzare qualsiasi ideale autentico – non di parte né di carriera, seppe senza illusioni di essere perduto alla vita italiana. Lo seppe, se scrittore, prima degli altri.
Anna Maria Ortese Attraversando un paese sconosciuto, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997 pp. 28-31
L’identità di una persona come di un Paese si lega alla memoria ma anche allo sforzo di ammettere nel quadro della propria memoria quegli elementi fastidiosi, ambigui, dimenticati perché rispetto a altri sono a volte proprio quelli i responsabili di una svolta che potrebbe averci condotto dove non volevamo. Niente come la poesia di un Paese, sorella della favola che lo racconta, risulta dalle questioni irrisolte delle generazioni precedenti. Niente come la scrittura poetica risente con maggiore evidenza l’utilizzo di strumenti retorici che possono farsi improvvisamente posticci e di ingerenze ideologiche che ne trasfigurano l’essenza rendendo alla pelle di quel camaleonte che si chiama poesia, le scoloriture dei parati di tutte le stanze che ha attraversato. E’ la poesia che evidenzia in una sintesi perfetta come la narrativa si dibatta nel tentativo di creare storie che rappresentino sia nel metodo che nel merito il sentimento del passato e del presente di un Paese. Un sentimento che latita o è incarnato per un attimo da chi scrive versi perché la realtà bacia qualcuna o qualcuno in qualche misterioso e felice meandro del suo scrivere.
Ma cosa accadrebbe se si affidasse alla poesia un esergo chiarificatore che rappresentasse esattamente la cifra di un’ipotetica trama di quel romanzo che è il Novecento italiano? La poesia è una cosa terribilmente seria anche quando richiama una visione banale del rapporto che sussiste tra le cose. Usarla ad esempio come esergo di un romanzo che abbia la dichiarata ambizione di tracciare secondo un preciso punto di vista femminile, uno spaccato significativo degli ultimi cento anni della nostra storia, farebbe assumere al racconto quella caratteristica evocativa che paradossalmente hanno in comune sia la poesia che la banalità di una vicenda per così dire realistica. Con la differenza però, che la poesia schiude oltranzisticamente oltre l’immaginario collettivo, la banalità no.
Tuttavia anche la poesia, anzi soprattutto la poesia convive più o meno consapevolmente con l’immaginario di ciascuno. Convive, come scriveva Giacomo Debenedetti, con la coscienza felice o infelice del proprio esserci nella storia. Nel 1980 Walter Siti pubblica per Einaudi Il neorealismo nella poesia italiana. Il libro prende in esame centoquarantaquattro autori italiani che hanno scritto poesia tra il 1941 e il 1956. Su questi centoquarantaquattro spiccano solo tre donne, una è Anna Maria Ortese. Attraverso un’analisi condotta sulle modalità di elaborazione delle forme stilistiche e delle figure retoriche compiute da questi autori, Siti sostiene che si possano mettere in luce tra l’altro “alcune caratteristiche decisive, proprio perché taciute, dalla lotta di classe”. E in effetti quale strumento più della poesia è in grado di rappresentare, pure attraverso la sua non riuscita stilistica, o le sue inspiegabili lacune tematiche, tutte le contraddizioni anche inconsce del periodo storico e del luogo in cui ogni autrice e autore tenta il proprio?
Mi sono chiesta spesso che potrebbero scrivere di veramente attendibile oggi una giovane studiosa, o un giovane studioso, accostandosi a quello che nel corso del secolo breve è stato definito il canone della poesia del Novecento italiano. Questa ipotetica persona almeno per la prima metà del secolo, per forza di cose dovrà attenersi perlopiù all’analisi di un canone formatosi su poeti e da critici maschi che lavoravano a Firenze, a Milano, a Roma, a Torino nella stampa e nell’editoria di libri e riviste, forti di un alto grado di formazione e informazione e perciò di potere, da usare come scambio e come arma. Quasi mai pervenuti, nell’ambito di questo canone italiano, poetesse, poeti raminghi, esperienze troppo sperimentali o veracemente regionalistiche.
Riguardo le italiane scrittrici di poesia, qualora si volessero fantasiosamente includere in un romanzo che tenti di rappresentarle entro il Novecento, si sfiorerebbe il patetismo. Disperse in città labirintiche e misogine. Sparite nei lembi estremi di un’Italia desolatamente ferita. Depistate da esperienze di vita estreme, a volte disorientate dal disagio psichico. Ma anche incaponite in una ricerca identitaria improba se condotta veramente in assenza di tutorati, entro un’identità nazionale incerta, in cui, più per una donna che per un uomo, essere l’impegnata in una simile amenità invece che impegnarsi proficuamente altrove, avrebbe significato risultare sospetta o diventare in breve tempo invisibile.
Quasi tutte le donne che hanno scritto o avrebbero potuto scrivere qualcosa di diverso da quello che risulta oggi dalla poesia e dalla letteratura del Novecento italiano potevano facilmente diventare incompatibili con un sistema culturale che consolidava la propria egemonia dietro un paravento. Un sistema che preparava il palcoscenico a maturazioni e svolte poetiche che per quanto fondamentali non prevedevano l’individualità come valore né l’indipendenza come fulcro. Così molte poetesse sono state escluse da questo canone, a meno che non si fosse trattato di parenti, mogli, compagne o amanti di scrittori, giornalisti e poeti affermati o comunque di addetti ai lavori editoriali.
Questa esclusione poteva essere motivata anche dal fatto che come la poesia di certi grandi poeti non canonizzati anche la scrittura poetica di alcune donne (molto più di quella narrativa) per sua natura nasce da un linguaggio di per sé antitetico al logos dominante a meno che non scelga di uniformarsi alla diversità di un qualsiasi linguaggio già in corso di codifica e con ciò comunque esterno a quanto si possa intendere esclusivamente come proprio.
Oppure, salvo rivendicazioni che finiscono per snaturare l’assenza di finalità che dovrebbe essere di ogni poesia, la donna che scrive accetti che la differenza che il suo linguaggio esprime sia tollerata come una minorità. Di qui alla sopraggiunta incapacità di dare ascolto alla propria voce senza sentirsi in diritto di comunicarla neanche a se stesse, il passo di tantissime, di quasi tutte quelle donne che in passato nascevano colluse con la poesia, poteva essere breve e irreversibile il loro silenzio. Un silenzio che in effetti tuttora assorda fin dentro i manuali di letteratura italiana.
(Le foto sono state scattate a Roma presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo)