Dany Boon, dopo lo strepitoso successo ottenuto con l’esilarante, originale e imitatissimo “Giù al nord” (2008), ci riprova con “Niente da dichiarare?”, pellicola che ci riporta indietro di quasi 20 anni quando, con il trattato di Maastricht, vennero abbattute le frontiere nei paesi dell’Unione Europea. Questa volta il luogo del contendere è un paesino sul confine franco-belga dove è in corso una sorta di guerra privata tra un doganiere belga, l’irascibile e razzista Vandevoorde, e gli automobilisti ed i colleghi francesi, tra cui il pacioso Ducatel, innamorato della di lui sorella. La creazione di una squadra mobile mista sarà l’occasione per avvicinare e far conoscere i due litiganti. Il film, per chi ha visto “Bienvenue chez les Ch’tis”, ne è il naturale proseguimento, semplice, senza troppe pretese, basato sul naturale gioco delle parti, esportabile ovunque, in cui si punta sulle esagerazioni macchiettistiche dei caratteri “razziali”, finendo forse per cavalcare un po’ troppo i facili stereotipi culturali, che guardano al folklore ma che sanno anche colpire le umane debolezze. Anche in questo caso, partendo da un minuscolo e provinciale contesto locale, si pongono le basi per decontestualizzare il “naturale” conflitto tra vicini e per farne occasione di scherzosa, ma cruda, disamina di problematiche importanti.
La tipizzazione caricaturale dei personaggi, in cui la mimica facciale va a fondersi con le rispettive qualità caratteriali, ha forse il torto, depauperata di una valenza morale, di ridurre il tutto ad una sorta di autocompiacimento nel cercare la risata con la riproposizione trita e ritrita delle più classiche barzellette denigratorie, in questo perdendo nettamente il confronto con la levità del precedente cinematografico. Non a caso questa volta entrano nel lungometraggio anche violenza e qualche volgarità, sconosciute in “Giù al nord”, che rovinano, pur nella loro proposizione ironica e fumettistica, quell’atmosfera da saga paesana cui ci eravamo abituati.
Ma Boon in questo caso va oltre azzardando una lettura sociologico-semplicistica, laddove adduce esemplarmente il fatto che, alla fine, ogni innovazione ed evoluzione è tanto apparentemente complessa quanto semplice e indolore, per dedurne l’assioma che, come in meno di vent’anni si è rivoluzionato il nostro approccio a computer, telefonini e alla tecnologia in genere, così si possono abbattere con la stessa semplicità anche i pregiudizi più atavici che dominano i rapporti tra popoli ed individui. In conclusione, un’opera che regala le magistrali interpretazioni dei due protagonisti, che facilmente riescono a suscitare grasse risate nello spettatore, ma che, pur proponendosi nel solco di “Giù al nord”, forse abusa un po’ troppo di cliché ormai noti e funzionali, finendo così per privarsi di originalità e freschezza, ma, soprattutto, perdendo la capacità di stupire e sorprendere.