Niente pioggia, oggi, ma una coltre brumosa così diluita da bagnare i capelli e quasi intirizzire. La vita urbana reca con sé qualcosa d’imprevedibile che sa sempre catturarmi. Osservo gli studenti che tornano da lezione, il tassista che apre lo sportello a una signora anziana, la commessa che scruta fuori dal negozio, la gitana che vuole leggermi la mano. Ne colgo i gesti, le esitazioni, delineo i loro percorsi, immagino propositi e aspettative. Fingo le loro esistenze appena il mio sguardo non riesce più a raggiungerli.
Non ho mai amato i paesi di provincia, per quanto raccolti e silenziosi, perché non conservano a lungo angoli segreti, non tengono nascoste le persone. Il tempo ne consuma irrimediabilmente il fascino: si conosce presto ogni portone, ogni finestra, ogni voce, ogni lacuna. E poi l’anonimato: non si può scomparire senza destare sospetti, congetture, illazioni, o essere consapevoli che il proprio volto diventerà comune in mezzo a tanti altri, certi che nessuno seguirà tracce pur labili.
Al contrario, in una grande città so di non sapere chi sono le persone che ho appena scrutato e dimenticherò all'istante. Se entro in un caffè ampio come questo, riempito di corpi infagottati e specchi, mi accontento d’interessi fuggevoli e ipotesi non verificabili. Ad esempio, l’uomo seduto al tavolo accanto ha zigomi marcati e semicerchi bluastri a circoscrivere gli occhi: sarà un pugile o un camionista? O forse ha un’impresa edile con diversi operai alle sue dipendenze. E la ragazza che sta con lui e accenna una risata? Ha mani solcate da screpolature vistose, le unghie usurate dall’incuria: forse lavora al mercato del pesce, oppure fa la cassiera in un piccolo supermercato di zona.
Mi fingo forestiero e vago come un turista, un intruso, straniero alle cose, alle strade che pure ho consumato. Indugio nelle piazze, tra i palazzi e i monumenti che, nella luce tarda del pomeriggio, hanno contorni soffici.