tratto dall’omonimo libro di Massimo Carlotto
con Annina Pedrini e Marina Occhionero – regia di Fabio Cherstich
produzione Teatro Franco Parenti, in scena dal 17 aprile al 5 maggio
“Devo mettere a posto la spesa. Tra poco arriveranno e non voglio che trovino la casa in disordine. Ne troveranno solo nella sua camera ma lì niente più niente al mondo potrà mettere ordine. Niente più niente al mondo servirà a mettere a posto le cose.”
Ormai dovrei esserci abituata ai racconti criminali di Massimo Carlotto. Ho letto i cinque romanzi de l’Alligatore, Arrivederci amore ciao e Nordest. Ho visto i film tratti da Il fuggiasco e da Arrivederci amore ciao, pochi mesi fa uno spettacolo teatrale da L’oscura immensità della morte. Eppure ogni volta le sue storie provocano in me sensazioni forti, iniziano con l’indignarmi e finiscono per sconvolgermi: a maggior ragione qui, dove assistiamo al monologo di una donna che ha appena ucciso la sua unica figlia.
Non sappiamo il suo nome, è un’appassita 45enne “proletaria”, si sarebbe detto una volta, venuta dalla campagna alla periferia di Torino, sposata con un operaio ex-Fiat, un sindacalista metalmeccanico licenziato che per campare ha dovuto accantonare l’orgoglio e accettare di fare il magazziniere. Sgomenta dal tempo che le scorre addosso, diffidente verso i nuovi immigrati, assiste con invidia, quasi con astio alle vite opulente delle famiglie benestanti a cui pulisce le case – cibi mai assaggiati, vacanze mai nemmeno sognate – costretta com’è a vestirsi negli empori cinesi e a fare la spesa al discount. Divoratrice appassionata di settimanali di pettegolezzi, non si fa mancare la tv via cavo (l’ha fatto per il marito, è troppo pericoloso andare allo stadio, di questi tempi) e 3 o 4 bottiglie di vermouth alla settimana: la aiutano tanto…
Ha una figlia di 20 anni, diplomata ma che si “accontenta” del lavoro di pony-express, 8 ore al giorno in motorino per 500 euro al mese e nessuna certezza per il futuro. Fa imbestialire la madre questa sua mancanza di aspirazioni, l’incapacità e la non volontà di darsi da fare per migliorare la sua condizione. E’ carina, ha gambe lunghe e un bel sedere sodo, eppure non vuol saperne di presentarsi, chessò, a un’audizione per fare la Velina, o per partecipare al Grande Fratello. Magari non la sceglierebbero ma si farebbe conoscere, potrebbe entrare nel “giro giusto”, e se le va bene trovarsi anche un marito coi soldi. Invece niente, scialacqua gli scarsi guadagni in serate in discoteca e per far dispetto alla madre riempie casa di patetiche e inutili collezioni da edicola. Finché un giorno il conflitto fra le due donne esplode in quella che sarebbe riduttivo definire una tragedia della follia. Ma già lei si immagina davanti alle telecamere: “Devo dire che siamo una famiglia felice. No, felice è troppo. Non ci crederebbe nessuno. Dirò che è normale.”
68 pagine di libro diventate un’ora di fitto monologo teatrale, e dietro alla superficiale patina del noir il racconto sociale: come in tutte le sue opere anche qui Massimo Carlotto indaga a fondo sulla quotidianità dell’Italia come non riuscirebbero un rapporto Censis o dotti saggi di storia e sociologia. In un linguaggio volutamente e filologicamente povero e dimesso ci racconta la vita di persone umiliate e rancorose, incolte e intolleranti, prive della minima prospettiva di una vita “di qualità”, senza gli strumenti culturali per opporsi alla miseria delle loro esistenze, che hanno la televisione-spazzatura e i suoi squallidi protagonisti come unici modelli. La frase del titolo, un verso da Il cielo in una stanza di Gino Paoli, ripetuta come un tormentone rappresenta proprio questa inizialmente riottosa, poi fatalistica arrendevolezza della protagonista a un destino ritenuto immodificabile, completamente privo di speranza.
Il regista Fabio Cherstich, davanti al non facile compito di mettere in scena un monologo quasi radiofonico, ha felicemente optato per un palcoscenico vuoto, arredato solo da un simbolico e stilizzato tavolo da cucina e dalle belle luci di Gigi Saccomandi. Eccellente l’interpretazione di Annina Pedrini, che si immedesima in modo quasi mimetico in questa donna tristemente amorale, antipatica ai limiti del repellente, passiva fino all’esplosione finale, che non è mostrata ma narrata con onirica estraneità. Uno spettacolo da vedere – è in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 5 maggio.