Il secondo spettacolo della stagione del Teatro delle Nevi si apre con un’opera della grande tradizione siciliana, “L’altalena” di Nino Martoglio. La rappresentazione, affidata alla Nuova Compagnia In…Stabile di Bronte, inaugura un nuovo percorso artistico che prevede l’interazione del Teatro delle Nevi con altri sodalizi allo scopo di fornire al proprio pubblico un’offerta di maggiore qualità, oltre a dare la possibilità ad una giovane realtà come quella brontese di farsi conoscere in contesti diversi. La versione messa in scena è quella di Turi Ferro e a curare la regia è la figlia Francesca. Sullo sfondo dei primi del ‘900, la storia racconta l’amore di Donna Aitina (Valeria Maio) nei confronti di Mariddu (Giovanni Giudice) il quale seduce ed abbandona la giovane, che troverà conforto – e non solo – tra le braccia di Don Neli (Dario Daquino), fratello di quest’ultimo. Il sipario si apre proprio su una bottega di barbiere dove Don Neli, il proprietario, lavora con il suo assistente Nino (Giuseppe Di Bella) che, tra uno scherzo ed una battuta, non fa altro che fare il perdigiorno.
Neli e Mariddu sono fratellastri agli antipodi: l’uno buono e coscienzioso, l’altro spaccone. Mariddu, infatti, da quando si è arricchito per via di una eredità di un certo zio prete, non fa altro che darsi arie in giro per Catania e conquistare giovinette. Tematiche fondamentali sono appunto la questione dell’onore, dal punto di vista di una donna emancipata, come si evidenzia sul finire del terzo atto con le parole di Nino quando, riferendosi ad Aitina, dice che “la fimmina è mancipata”; la questione del denaro per via della sopra citata eredità ed, infine, quella delle menzogne perpetrate nella famiglia di Neli. A contornare il tutto l’amore. Puro e sincero quello di un Neli dilaniato perché “l’amore è più forte del sangue”. Di ripicca, prepotenza e appartenenza quello di Mariddu nei riguardi di Donna Aitina.
Il linguaggio utilizzato è dialetto catanese dei primi del secolo scorso, intercalato da alcune parole in italiano e da altre appositamente storpiate per far nascere l’equivoco e dunque la battuta (ad esempio “suggialismo” per socialismo come apprendiamo da Pitirro, personaggio interpretato da Giuseppe Fallico). Nell’opera tragicomica il dualismo permea fortemente l’intera commedia, soprattutto per il fatto che si alterna sacro a profano: i festeggiamenti per la festa di Sant’Agata nel primo atto cozzano con i riti contro il malocchio della Za’ Sara (Teresa Portaro) nel terzo atto. Anche se la Sicilia è terra di contraddizioni e di folklore è netta questa suddivisione. Francesca Ferro ci racconta della sua collaborazione con questa compagnia di non professionisti che nonostante tutto «presentano molte caratteristiche positive di attori di un certo livello, tolte però le sovrastrutture».
Ed aggiunge che «per loro il teatro è una passione, non una professione. C’è un ricordo di quei grandi protagonisti che il teatro l’hanno fatto, senza mettere in mezzo politica e soldi». Un sodalizio iniziato due anni fa che continua con grande approvazione di pubblico, in giro per i teatri siciliani e che li vedrà prossimamente impegnati ne “Il malato immaginario” di Molière. La regista confessa che l’opera, rivisitata in chiave nuova e sicuramente svecchiata, è un omaggio al padre. La versione di Ferro rispetto a quella di Martoglio presenta piccole differenze: in quella originale il terzo atto è quasi inesistente e le parti comiche sono molto più ridotte anche se Martoglio, nel sodalizio con l’attore Giovanni Grasso, non fece mai mancare la comicità nelle sue opere.
Francesca si dedica con grande partecipazione a questo lavoro, non dimenticando però di vestire i panni di attrice; i suoi prossimi progetti la vedranno impegnata a breve nella “Scapricciata” di Fioretta Mari e ne “La Venexiana” opera anonima del ‘500. La compagnia merita effettivamente un plauso per la grande naturalezza nella recitazione. Tutti gli attori (completano il cast Domenico Maio nei panni di Don Ignazio e Rossella Spanò in quelli di Nunziatina) riescono a calarsi perfettamente nelle vesti dei protagonisti in special modo la Maio e Daquino. Gradito l’intervento musicale dal vivo con la serenata di Neli ad Aitina eseguita dal gruppo folkloristico “I scantati ra stilla” di cui fa parte anche lo stesso Dario Daquino. Musica che prosegue anche a sipario chiuso. Solo alla fine si comprende pienamente il significato del titolo dell’opera, quando la Za’ Sara dice di Aitina: “u pigghia u lassa, u lassa u pigghia”, un’altalena appunto di atteggiamenti. Un successo per una piccola compagnia a cui va il nostro sostegno.