Ninuccia e le scarpe degli Angeli (quinto cap.)

Da Gattolona1964

La voce e la sagoma alta e nera le urlò: “Ma che fate Donna Angelica? Vi ordino di mettere giù il coltello in nome di Dio, ve lo ordino!” A questa voce familiare Angelica si scosse ed un tremito la pervase tutta, lasciò cadere a terra il coltellaccio e disse” Sì, ora lo posso mettere giù il coltello, non temete. Quel che dovevo fare l’ho già fatto, ora entrate pure Don Gaudenzio, è nato mio nipote, il figlio di Ninuccia, dovrei essere molto felice ma così non è. Porgendogli con dolcezza e un filo d’umanità il bambino ancora sporco di sangue e coperto con uno straccio per lavare il pavimento, disse “Prendetelo voi ora e dategli un’ultima benedizione. Noi non sapremmo cosa farne, è vostro: seppellitelo, bruciatelo o fatene ciò che è meglio per lui e per Ninuccia. Io, questa carne non la voglio in casa mia.” Don Gaudenzio, con le lacrime agli occhi guardava il bambino incredulo: lo prese in braccio, prima che l’altra cambiasse idea e lo guardò con occhi benevoli. Lo benedì subito, facendogli il segno della Croce sulla fronte e se lo strinse forte al petto, per proteggerlo nonostante il bambino fosse morto. Don Gaudenzio anch’egli padre, divenne d’improvviso tenero ed affettuoso come solo un papà saprebbe fare, lo avvolse in una copertina scura per far sì che non si vedesse il sangue ed uscì da quella casa del demonio, con l’angelo biondo in braccio. Se ne andò dal retro, da una porticina di servizio e per fortuna, non era stato visto da nessuno. Prima di uscire sussurrò nell’orecchio di Angelica”Non crediate che sia finita qua, appena avrò sistemato il corpo del bambino, mi occuperò anche di voi! Mi dovrete dire tutto per filo e per segno, dovrete spiegarmi perché avette commesso questo orribile gesto e se non mi fornirete una risposta esauriente, in quel momento sarà la Madonna a dovermi fermare, perché io non mi fermerò”. Martino Ponzi e gli altri vicini di casa, erano sulla porta della casa di Ninuccia, con altro ghiaccio ma nessuno riuscì a vedere o a comprendere che cosa stava succedendo tra quelle mura. Anche se le urla ed i rumori che provenivano quel mattino da via dei Tigli numero otto, erano tali, che i paesani non li avrebbero dimenticati facilmente. La faccenda dei denti marci, non aveva convinto Martino che continuava a portare altro ghiaccio. Si chiedeva come mai Ninuccia la sua migliore amica, non gli aveva parlato di quei denti che le procuravano un dolore insopportabile, visto che da buoni amici quali erano, si confidavano sempre tutto. La versione raccontata da Angelica non lo convinceva molto, e decise che avrebbe indagato. Ora però non c’era tempo, ora doveva aiutare Ninuccia. Nel divanetto del treno, Dora si girava e si rigirava all’impazzata. Iniziò anche a singhiozzare nel sonno, disturbando l’uomo che era di fronte a lei. Non trovava pace, i fantasmi del passato venivano ancora a farle visita. Sudava come una fontana, l’uomo per pietà le asciugò la fronte con un fazzoletto di lino ricamato. Sopra vi erano le sue iniziali: GMA. Ninuccia riprese il respiro regolare e calmo di chi dormiva all’apparenza beato, aveva solo qualche leggero tremito e piccole scosse che la facevano sobbalzare, ma l’uomo notava che si stava calmando e le scendevano lacrime dagli occhi. Egli pensò “Ma guarda, esiste ancora una persona che sa piangere, beata lei! Deve essere fortunata se ce la fa, anche se dormendo così profondamente non se ne può rendere conto.
In quel momento la squadrò da capo a piedi e si rese conto, che non doveva essere una barbona, come aveva pensato poc’anzi, ma una donna per bene, anche se l’abbigliamento e il bianco dei capelli cortissimi, potevano far pensare a tutt’altro. “Forse è scappata da una casa di cura, i capelli cortissimi glieli devono aver tagliati in clinica”. pensò grattandosi la barba ispida. Poi però concluse che non erano affari suoi e riprese a fissare il pavimento. Rosina accarezzava la fronte di Ninni che si stava calmando e beveva acqua di continuo, le aveva tolto i lacci alle braccia ed il tappo sulla bocca e le disse”Appena torna di qua la uccido io, con una padellata in testa, che ne dici Ninni?”. “Non ci riusciresti mai da sola, io in queste condizioni non ho nemmeno più il fiato per respirare e tu sei troppo piccolina per avere la forza che ha lei. Lascia perdere, preghiamo che finisca tutto in fretta, altro che padelle! Qua ci vorrebbe un miracolo, dimmi piuttosto dov’è Beniamino? Dove lo ha portato?Sei riuscita a strapparglielo di mano e a darlo a Martino, o a Dinetta, o a qualcun’ altro? Dimmi che lo hai salvato Rosina, ti supplico! Il viso di Rosina si fece serio e si mise una mano sulla bocca, mentre si inginocchiò di fronte a Ninuccia; tra mille singhiozzi le disse”Non ce l’ho fatta, aveva già preparato il coltello e poi l’ha messo nella cassettina.. e poi.., qualcuno che non ho fatto in tempo a vedere, l’ha portato via. Non c’è più nulla da fare, Beniamino è morto: non c’ è più Ninni, dobbiamo rassegnarci, occorre farsene una ragione, dobbiamo dimenticare tutto e scappare via da qui al più presto”. A queste parole pronunciate come una sentenza irrevocabile, la vista di Ninuccia iniziò a sdoppiarsi, i contorni le apparivano deformi mentre una nube grigia e nera si impadronì della sua mente. Complice anche l’emorragia che aveva avuto poc’anzi, tutto girava vorticosamente e cadde all’indietro, perdendo i sensi. In quell’attimo si aprì la porta, ed entrò Angelica con un viso diverso, ma con in mano ago e filo pronta per ridare dignità alla figlia disonorata. “Aiutami Rosina a ricucirla, svelta! Mentre è svenuta non sentirà male, sbrigati o uccido anche te.” Mentre lo diceva però, le parole si incespicavano nella bocca di Angelica che perdeva saliva da un angolo, ma all’occhio attento di Rosina non sfuggì questo particolare. Angelica iniziò così a cucire la fessura tra le gambe di sua figlia, che ora era più lunga e profonda, anche per l’ episiotomia praticata in modo brutale, per far uscire il bambino molto grosso. Voleva ridare la verginità alla figlia, ma Rosina non riuscì a resistere a questa ennesima scena cruenta e perdette i sensi, sbattendo la testa su una sedia. “Queste due bambine non dovevano subire e portare nei loro cuori e nelle loro menti una disgrazia del genere: è tutta colpa mia e sarò punita per il resto dei miei giorni, lo so con certezza. Ma che cosa ho fatto? Come ho potuto uccidere il bambino? Come ho potuto violentare così mia figlia e farle tutto questo male? Lei non lo meritava e non se l’è cercato, non ha colpa di nulla se quel disgraziato di mastro Raffaele ha abusato di lei, come fece con me quando avevo diciotto anni. Era lui da eliminare dalla faccia della terra, non mio nipote, quell’angioletto biondo che ho massacrato: Dio non mi perdonerà mai: come potrebbe? Non c’è scusa e non c’è penitenza adeguata per ciò che ho commesso. Signore, ti supplico fammi morire adesso, non indugiare oltre, dammi la punizione che merito!” Angelica farneticava, pronunciava le parole in modo sconnesso mentre la saliva continuava a scendere dai lati della bocca. La sua mente ottenebrata e confusa continuava a ripeterle che aveva ucciso suo nipote. Terminò di ricucire Ninuccia come faceva in fabbrica con le scarpe, tagliava e cuciva, poi faceva i nodi fini fini, doveva sembrare ancora illibata e vergine quando un eventuale futuro marito, l’avesse chiesta in sposa. Angelica si accorse che nel proferire le ultime parole, faticava a scandire le sillabe perché d’improvviso, la sua bocca scappò da un lato del viso e non c’era verso di riportarla al proprio posto. Corse a prendere uno specchio rotto in camera da letto, vide che la sua bocca era storta, la mandibola bloccata e lo zigomo alzato a dismisura le arrivava a sfiorare quasi l’occhio. Il suo viso ora, sembrava una maschera diabolica, ed era serrato in un ghigno orribile. Anche il suo braccio sinistro era immobile, se ne accorse perché le caddero di mano all’improvviso le forbici. Cercò di aprire la porta di casa per chiamare aiuto, ma non vi riuscì. Nel frattempo Ninuccia e Rosina si stavano riprendendo dallo svenimento e con estrema fatica, cercavano di aprire gli occhi.
(fine quinto capitolo.)



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