Birdman di Alejandro G. Iñárritu (2015)
Il solito film di supereroi, mi sono detto. Un altro regista messicano corrotto dall’industria hollywoodiana e dalla sua vanita’. Ho guardato meglio e non si trattava di un regista qualunque, ma di Iñárritu. Se in quattro anni non fai un film o sei in preda ad un esaurimento nervoso (e di idee) come Francis Ford Coppola in “Apocalypse Now” o il progetto richiede di essere mantecato a fuoco lento. Incuriosito da tutto questo, mi sono catapultato al cinema per sciogliere inderogabilmente ogni mio dubbio e sono stato ripagato. Si entra subito nell’azione diegetica del film, sin dalla prima sequenza, dove il protagonista e’ intento a dirigere la sua prima piece teatrale in attesa della prima a Broadway e fino alla fine non avra’ un attimo di tregua. Riggan Thomson (Michael Keaton) e’ un attore come tanti, che ha ottenuto fama e successo anni prima interpretando un supereroe dei fumetti al cinema, ma che non e’ riuscito piu’ a scrollarsi questo personaggio e questa etichetta di dosso. Ci prova mettendo in scena per una platea e una critica con la puzza sotto il naso, una piece teatrale del simbolo del minimalismo americano, Raymond Carver. Non pare molto preoccupato dai paragoni pesanti con questo grande autore, ma soprattutto e’ traviato dalla presenza e dalla voce dell’Uomo Uccello, che massicciamente ormai fa parte della sua vita, come un alter ego che prepotemente non cede terreno alla sua ostinata ricerca di espressione altra. Ed e’ proprio questa simbiosi dicotomica tra l’autore impegnato e l’Uomo Uccello, a travolgere Riggan perche’, anche opponendo una mirabile resistenza, non puo’ sottrarsi alla sua vera natura artistica. Per chi spera che il signor Iñárritu in direzione opposta al suo protagonista abbia girato un film piu’ “leggero” dei precedenti, come se sentisse il bisogno di realizzare qualcosa di diverso dalla sua filmografia, ne restera’ parzialmente deluso. Cambia l’approccio ma il risultato non cambia. Stavolta si serve di un’ironia spietata e amara, seppur a tratti esilarante, inoculandosi dentro e fuori i sogni e le paure di Riggan. Ogni volta che crede di aver “svoltato” viene bruscamente risvegliato dal suo alter ego (immaginario?), che lo mette di fronte alla sua autentica natura, tant’e’ che riduce allo stremo la distanza tra lo spettatore e la macchina da presa. D’altronde parliamo sempre di un backstage di uno show teatrale a Broadway! Coerentemente alla sua poetica Iñárritu non si risparmia neppure nella sua indagine esistenziale, mettendoci a tu per tu con l’angoscia e il dovere morale di essere accettato da un’elite che lo ripudia, in pratica accentuando all’iperbole il percorso che porta alla propria coscienza, non andando a torcere di una virgola il fil rouge iniziato con “Amores Perros”.
Naomi Watts interpreta un’ingenua attrice che deve ancora emergere, ovvero lo stesso ruolo che le ha dato la fama quattordici anni orsono in “Mulholland Drive” di David Lynch, film e registri filmici diametralmente opposti, ma entrambi ossessionati dall’indagine dell’autenticita’ del loro cinema. Mentre nel film di Lynch la Watts sta assistendo ad un concerto molto struggente, ma dove realizza che nessuno sta realmente cantando e suonando perche’ “No hay banda” (in spagnolo significa che non c’e’ l’orchestra, nessuna suona) come le viene comunicato, questo per simboleggiare quanto non importa che la rappresentazione sia autentica per scaturire autentiche emozioni e suggestioni. Il regista messicano, per tutta risposta, permette di improvvisare uno stupro on stage di Lesley (Naomi Watts) da parte del divo Mike (Edward Norton), per rendere ancora piu’ iperreale ed ipertangibile la messa in scena, quando appunto si tratta pur sempre di una rappresentazione teatrale.
Il ruolo di mattatore e’ affidato all’ottimo Michael Keaton, che avendo anch’egli un conto in sospeso con I supereroi hollywoodiani dopo aver interpretato il primo “Batman” di Tim Burton (praticamente il padre dei supereroi masticati e digeriti dalla mia generazione) non si risparmia nel regalare a Riggan un’iperumanita’ cristallina e scevra da ogni contaminazione che non prescinda da connotazioni autobiografiche. E alla fine, almeno lui, si affranchera’ in maniera mirabile da questo ruolo-etichetta.