Bisogna prepararsi adeguatamente prima di
ascoltare i Mourning Beloveth, perché se il doom è genere per il quale si
consiglia una proporzionata predisposizione emozionale/mentale, Formless, il nuovo lavoro
del combo irlandese è più che mai un immenso macigno strisciante e sulfureo
intriso di malinconica drammaticità: doppio disco, cinque canzoni da quindici
minuti ciascuna (più un breve e violento episodio di quattro), è facile capire
come la proposta musicale del quintetto sia ancora più ostica che in passato
nonostante una certa, miracolosa accessibilità sonora nella costruzione e negli
arrangiamenti, in fondo da sempre eccelsa qualità della band.
I riffoni lacerati e laceranti posseggono
infatti quella sofisticata varietà da strutturare i lunghissimi brani, le
melodie sono ispirate e ben pensate nel generare atmosfere ancestrali, tristi
canti che non possono non rimandare a un’Irlanda assai più cupa di come è
alcolicamente immaginabile di solito. Il growling potentissimo si incastra con
soluzioni molto raffinate a clen vocals dal gran gusto teatrale, il ritmo è
ovviamente lento ma devastante come l’avanzata di un carro armato, e quindi,
per quanto gli 80 minuti di musica siano pressoché eterni, l’ascolto è sempre
interessante, vario e ben lontano dal pericolo di monocorde monotonia, anche
quando gli irlandesi si avventurano in territori totalmente acustici ma così
espressivi e intensi da non sentire il peso della ripetizione e dell’ossessione
sonora.
La lunga parte strumentale che spezza
Enthics on the Prencipice o le tragiche accelerazioni di Dead Channel sono
forse i momenti migliori di un album maestoso e imponente, che pur continuando
a ricordare Anathema e My Dying Brinde per certe, inevitabili soluzioni con cui
in fondo deve fare i conti l’intero movimento doom-death, risalta per
personalità e solennità.