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No party, no arte

Creato il 11 febbraio 2014 da Albertocapece

1463f877e02234290184b3e465150984_prevAnna Lombroso per il Simplicissimus

Non so a voi, ma a me ogni qualvolta sento dire che l’arte è la nostra ricchezza, e  che i beni culturali sono il nostro petrolio, mi viene l’orticaria. È su quel nostro che ho dei sospetti, perché si sa che ricchezza e petrolio sono appannaggio di pochi e quei pochi non siamo tutti noi, anzi nel secondo caso a trarre profitto sono gli stessi sceicchi ai quali è stata ceduta parte della Sardegna e ci si accinge a  offrire anche molto altro.

E infatti chi ha e molto si ricorda che bellezza arte sono un bene comune solo quando dobbiamo contribuire, come d’altra parte abbiamo sempre fatto pagando tasse che largamente evadono. Mentre ne rivendicano un’opzione  proprietaria ed esclusiva quando si tratta di goderne.

Da quando la Galleria Borghese è stata offerta ai romani e al mondo, in modo che semplici cittadini potessero mettersi in fila davanti a Paolina, tenuti ben lontano da transenne invalicabili, alla faccia dei valori tattili, come è giusto, stare in punta di piedi per dare uno sguardo di sguincio tra comitive e classi di scolari a  Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Raffaello, Tiziano, Correggio, Caravaggio, chiunque l’abbia visitata sa che si tratta di un oggetto prezioso, delicato e vulnerabile, così come il bellissimo giardino del quale si viene cortesemente ma fermamente persuasi a fare il minor uso possibile, che anche l’erba è d’artista e soprattutto in considerazione che è popolato di statue e fontane. Ma abbiamo saputo che questo riguarda noi mortali. Perché noi siamo soltanto cittadini che pagano le tasse, per garantire in maniera sempre più ridotta, la manutenzione di quel contesto straordinario, ed abbiamo diritti inferiore all’associazione dei Mecenati della Galleria, i cui  300 invitati si sono goduti arte e cena in una mega tecnostruttura, eretta nello stile grandi opere, con un parterre  che annoverava   Paolo Scaroni e Francesco Gaetano Caltagirone, Paola Severino e Cesare Geronzi, tre generazioni di Fendi e Carla Sozzani, i principi Ruspoli e i coniugi Letta senior.

Il tendone da Circo Orfei, tirato su con assoluta noncuranza del rispetto del luogo, sostenuto da tubi Innocenti tirati su nelle fontane o i fili di ferro avvolti intorno a un Bernini, non ha disturbato nemmeno due auguste rappresentanti del disinteressato amore per l’arte: la mamma del Maxxi, Giovanna Melandri e la sottosegretaria Borletti Buitoni, che comunque con Orfei ha una qualche affinità tricologica.

E lo credo, trattandosi di due sacerdotesse della teocrazia del mercato, quella che ritiene che sia buono, anzi doveroso, cedere in comodato perenne il nostro patrimonio in modo che venga retrocesso a spot tridimensionale, griffe marcata sui mocassini, logo di prodotti commerciali, sontuosamente scaricato dalle tasse e dalla nostra fruizione. E infatti il mantra della cotonatissima altisonante sottosegretaria   Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni, la cui litania di cognomi rievoca  consigli d’amministrazione rapaci, industrie operose, fruscii di azioni, come una colonna sonora del film del profitto, non si presta a equivoci: “E’ assolutamente impossibile che lo Stato abbia risorse sufficienti per ampliare l’offerta culturale senza ricorrere anche al sostegno dei volontari”. Quindi è necessario spezzare finalmente quell’improduttivo «legame indissolubile» tra lo Stato e il patrimonio storico e artistico, per perseguire la profittevole valorizzazione, estremo eufemismo per indicare alienazione dei beni comuni, svendita, concessione perenne a brand più o meno famosi del brand della cultura e dell’arte italiana. Aggiungendo che, visto che non ci sono quattrini, bisogna far buon viso lasciando allo Stato solo la tutela, mentre la gestione dovrebbe essere affidata ai privati, con o senza fini di lucro”. E se gli sponsor, pardon i mecenati, si vogliono godere in esclusiva i beni che contribuiranno a valorizzare, ne hanno diritto, bisogna essergliene grati, offrirgli tutte le comodità, che in fondo lavora, guadagnano, spendono, pretendono.

Quello che è successo alla Galleria Borghese, si verifica, su e giù per l’Italia: cene aziendali e matrimoni da Padrini al tempio di Segesta, Ponte Vecchio generosamente concesso dal Sindaco per un pranzo i cui proventi si sono misteriosamente perduti in un percorso impervio verso un non precisato scopo benefico, la Gipsoteca di Canova, luogo vulnerabile per definizione, arretrato a scenografia per push up e slip, l’Arsenale di Venezia pronto a ricevere una discoteca da rave party in occasione del Carnevale.

Non c’è da stupirsi, preso ci imporranno di vestirci tutti da gladiatori, di intrecciare carole in qualche tableau vivant all’ombra del Colosseo, di sfilare in costume per la felicità dei compratori, in fondo un Paese in svendita ha bisogno di vetrine e di manichini.

 


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