Gli abitanti del villaggio svedese di Kiruna – 150 km a nord del circolo polare artico – hanno accettato di spostare l’intera cittadina di alcuni chilometri per il progredire della miniera sotterranea, che mette a rischio la stabilità del terreno su cui sorge. Lo sviluppo economico ha chiesto loro il suo dazio, ed essi hanno deciso di pagarlo.
A Kiruna, infatti, la miniera è pressoché l’unica opportunità di reddito, e il rilancio del suo sfruttamento deriva dalla crescente richiesta di ferro della Cina. La cittadinanza non aveva molta scelta. Dinamiche economiche globali (il galoppare dell’economia cinese) si ripercuotono sulle decisioni locali a migliaia di chilometri di distanza. È “l’effetto butterfly”, che rappresenta bene l’attuale panorama economico.
Non è un fenomeno nuovo. Il capitalismo e l’industria moderna hanno sempre saputo imporsi per la maggiore efficienza e capacità di sviluppare benessere e ricchezza. La condivisione della ricchezza è stata la loro giustificazione.
Nel caso della cittadina svedese sarà l’azienda ad accollarsi tutte le spese, mentre i cittadini vengono coinvolti in tutte le fasi decisionali, anche se i lavori potrebbero durare un secolo.
Oggi, però, non è più così scontato che le necessità industriali ed economiche si impongano; perché l’implicita promessa del Progresso, che ogni opera industriale aumenterà la ricchezza locale, sembra non funzionare più come prima. La stessa idea di Progresso, che ha finito per coincidere con il mero sviluppo economico, pare oggi in discussione: di fronte ai crescenti rischi sistemici delle società moderne, temi come la qualità della vita e financo la felicità (privata e pubblica) sembrano assumere un significato nuovo e una ritrovata importanza, innescando nuove riflessioni sociali (Beck 2000).
Il caso della tratta Tav Torino-Lione sembra emblematico. Un progetto transnazionale si scontra con le proteste del territorio, che non ne vede i vantaggi collettivi, e si oppone al potere pubblico, il quale per la sua intrinseca razionalità dovrebbe giustificare l’intervento in termini collettivi piuttosto che particolaristici.
Il fatto è che per trovare la razionalità del progetto Tav bisogna interpellare la cessione di sovranità dello Stato nazionale alla dimensione europea e alle dinamiche globali. L’economia globale sembra muoversi attraverso una rete di grandi città, in cui ogni bretella di collegamento, pur minima, diventa essenziale (Saskia Sassen 2004). La Mobility turn (Elliot, Urry 2013) amplia le possibilità di accesso ad una mobilità crescente.
La questione, allora, è assecondarlo o domare lo sviluppo globale? Assecondarlo significa continuare la strada dei mondialisti neoliberali, che impone alti costi umani e ambientali. Oltre a ciò, i vantaggi sui contesti locali non paiono più così palesi; e lo sviluppo meramente economico non è più un valore che si possa dare per scontato.
Qual è, infatti, l’interesse generale che giustifica l’opera agli occhi dei contesti locali? Perché questi dovrebbero inchinarsi ad un processo globale che li sovrasta? Che cosa giustifica questa corsa allo sviluppo economico se questo è slegato dai contesti di vita?
La questione del No-Tav è il rapporto tra la razionalità pubblica, che vorrebbe imporre un presunto interesse generale, e la razionalità propria dei contesti locali, i quali non intravedono più tale orizzonte dietro le scelte di organismi lontani e gli interessi di una “élite della mobilità” (Bauman 1999). L’Europa stessa, organismo burocratico sovranazionale, finisce per essere rappresentata come il crogiuolo di tali interessi, alimentando, tra chi è confinato alla dimensione locale, l’antieuropeismo e l’antiglobalismo.
“No-Tav ovunque!” è, infatti, uno degli slogan usati dai cosiddetti “movimenti antagonisti”, a testimoniare la volontà di allargare – in maniera apparentemente contro intuitiva – una lotta locale a livello nazionale e globale.
In realtà, la parte più dialogante del movimento “no-global” ha un più lungimirante progetto di “alter-globalizzazione“, rendendosi conto che la globalizzazione è un fenomeno irreversibile che non va respinto, bensì “domato”.
Come dimostra il caso del villaggio svedese, non è necessario opporsi sempre a forme di sviluppo che potrebbero apparire lesive dei diritti locali. Il coinvolgimento delle popolazioni è però necessario. La vera sfida dell’Europa, quindi, appare quella di conciliare al meglio interessi locali e dinamiche globali.
Il rispetto del principio di sussidiarietà è essenziale, ma esso non significa delega totale. L’attuale democrazia europea non pare all’altezza della complessità dei contesti locali, finendo per non rappresentarli e, in definitiva, alimentando una percezione burocratica delle sue istituzioni.
Ci vogliono prassi capaci di guardare lontano, al mondo globale, quanto vicino, ai contesti locali. La governance europea o saprà essere in questo modo o non sarà affatto.
Bibliografia essenziale:
Bauman Z., 1999, Dentro la globalizzazione – le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari;
Beck U., 2000, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma;
Elliot A. e Urry J., 2013, Vite mobili, il Mulino, Bologna;
Sassen S., 2004, Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna.
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