Particolare ed interessante punto d’incontro, tanto da un punto di vista visivo quanto contenutistico, fra il classico kolossal hollywoodiano ed un moderno fantasy, Noah, scritto (insieme a Ari Handel) e diretto da Darren Aronofsky, non può certo definirsi come un film d’impronta religiosa, in particolare se si vuol fare riferimento ad una pedissequa e rigorosa fedeltà alle Sacre Scritture, magari trasposte sul grande schermo attraverso una visione luccicante ed oleografica. Riportando la sensazione primaria lasciatami dalla pellicola, ritengo che Aronofsky, nel far cadere i veli di un’impostazione puramente dottrinale, abbia voluto essenzialmente allineare l’esperienza di Noè (interpretato con partecipe e sofferta efficacia da un corporale e sanguigno Russel Crowe) al mondo contemporaneo, al bisogno dell’uomo, dell’essere umano, in un sempre attuale clima di crisi e confusione dei valori, di affidare le proprie ambasce e i propri rovelli interiori ad un Entità superiore, avvertendo l’esigenza di recuperare l’originaria armonia col creato che lo circonda.
Russel Crowe e Ray Winstone
Il suddetto recuperato dialogo col Creatore, manifestato attraverso una serie di visioni probabilmente divine, ma affidate all’interpretazione umana, si concreterà dapprima in un’obbedienza sorda e cieca nell’espletarne la volontà, dai risvolti anche violenti nel mettere in atto una particolare giustizia che riporti l’ordine naturale delle cose, e poi mutuerà, attraverso una serie di tentativi ed inevitabili errori lungo il percorso, in una fede trasmutata dai toni dell’amore e della tolleranza, nella dominanza della misericordia e non più del sacrificio. La comprensione messa in atto assumerà quindi una consapevolezza esternata in primo luogo dal Cielo verso la Terra e poi acquisita da quest’ultima: “(…) Io non maledirò più la terra per cagione dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è inclinato al male fin dalla sua adolescenza; quindi non colpirò più gli esseri umani come ho fatto. Da ora e finché durerà la terra, semina e raccolto, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte mai più cesseranno” (Genesi 8, 21).
Jennifer Connelly e Crowe
Aronofsky visualizza una metafora sull’origine del male, in particolare del suo perdurante trovare buon albergo nel cuore degli uomini: non a caso nel reiterato racconto animato della creazione il particolare più ricorrente, cristallizzato in un quasi impercettibile fermo immagine, è lo scagliarsi di Caino contro il fratello Abele, un gesto che muterà nel corso dei secoli in altre aggressioni dell’uomo contro l’uomo e verso tutto ciò che gli è stato concesso nella sua materiale disponibilità. Una vera e propria ribellione ad una sorta di tacito patto volto all’armonia universale, nell’ergersi inoltre a fianco del Divino come giustificazione di qualsiasi atto materializzato, un’errata interpretazione dell’essere stati creati a sua immagine e somiglianza.
Ciò è reso evidente dalla contrapposizione fra l’aggressivo e violento Tubal-Cain (Ray Winstone, rabbiosamente shakespeariano), ultimo discendente della stirpe di Caino, il quale concreta il paragone fra uomo e Dio nell’espletare un diritto di possesso e conquista, e Noè, che, confortato dalla saggezza del nonno Matusalemme (Anthony Hopkins, un po’ stranito nell’ormai consueto cammeo buono per tutte le stagioni), lo manifesta invece come una estensione della volontà celeste.
Emma Watson
Nel descritto passaggio da un’obbedienza fideistica contrassegnata, a tratti, dalla stolidità, a quella che la trasmuta coi tratti della propria interiorità, si rivela fondamentale poi il ruolo femminile, la dolcezza unita alla determinazione propria della moglie di Noè, Naameh (un’intensa Jennifer Connelly), così come la compassione delineata dalla figlia adottiva Ila (Emma Watson, acerba ma nel complesso efficace), senza dimenticare le figure di due dei tre figli del Patriarca, Sem (Douglas Booth), obbedienza e ragionato distacco dalla figura paterna, e soprattutto Cam (Logan Lerman), la ribellione in nome dell’egoismo, pronto ad allearsi col male pur di soddisfare i propri aneliti. Certo, da un regista piuttosto viscerale come Aronofsky, se vogliamo anche grezzo e violento nel suo essere più visivo che visionario, in particolare nelle rappresentazioni, dal sapore onirico e simbolico, del conflitto fisicità-spiritualità, il tutto non può che essere visualizzato con modalità ora cupe (la fotografia di Matthew Libatique), ora roboanti (sottolineate dall’intenso, per quanti a tratti non propriamente inedito, commento sonoro di Clint Mansell).
Anthony Hopkins
Evidente la predilezione, in particolare, per la miracolosità degli eventi, rappresentata “naturalmente”, nonostante l’abbondante effettistica digitale, ovvero abbandonando qualsiasi razionalità e lasciandosi andare ad una particolare miscellanea pop e naif, con punte di kitsch non certo involontario (penso in particolare all’interpretazione dei biblici Nefilim, gli angeli caduti trasmutati in colossi di pietra, dalle “moderne” fattezze robotiche). Lo stile registico, coadiuvato da un montaggio abbastanza serrato (Andrew Weisblum), per quanto allenti le redini verso il finale, è alimentato da un rapido susseguirsi di carrellate, panoramiche, intensi primi piani di volti e corpi, insistiti e studiati campi/controcampi fra Noè e il cielo. Questi ultimi si rendono metafora di un dialogo tutto interiore ed affidato al libero discernimento, nella progressiva rivelazione delle proprie inclinazioni, anche alla luce delle complesse circostanze da affrontare.
Una volta accettata tale particolare impostazione, Noah, a mio avviso, si rivela un’esperienza cinematografica interessante, certo anche discutibile, ma sicuramente partecipativa in molte sequenze.Raggela il sangue, mentre fuori si scatena la furia delle acque, udire da dentro l’arca i gemiti di disperazione di quanti, uomini e animali, non sono stati toccati dalla clemenza divina, visualizzati brevemente in un’immagine debitrice delle incisioni di Gustave Doré. Una volta che la narrazione si avvia alla conclusione, con la stipula di un nuovo patto fra i sopravvissuti e il Creatore, nella reciproca accettazione della coesistenza di bene e male, è difficile non essere pervasi, almeno è quanto ho avvertito, da un senso di sollievo e ritrovata serenità.
Un film da vedere, a suo modo coraggioso ed intelligente nel conciliare botteghino ed autorialità, dalla resa sullo schermo forse eccessiva e disturbante, ma al contempo estremamente vitale ed avvolgente.