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Quando a un regista come Darren Aronofsky viene affidato un blockbuster americano, le alternative sono due: o si ha l'intenzione di realizzare qualcosa di veramente grande oppure si cerca di sfruttare una garanzia autoriale per creare intorno a un prodotto poco convincente un'aspettativa mastodontica.
Nella maggior parte dei casi la pendenza per risolvere il dubbio la si può cercare rovistando tra gli autori della sceneggiatura, controllando se tra essi c'è anche la presenza dell'autore, oppure se questo è stato scelto solo come garante, firmatario, di un prodotto da realizzare su commissione, proposto dalle major per svariati motivi economici/contrattuali. Entrando allora nello specifico, e quindi in "Noah" il mistero non può fare altro che infittirsi perché nel copione, seppur non da solo, il nome di Darren Aronofsky compare in prima fila rassicurando e incuriosendo, collocando il sospetto che per la prima volta il regista abbia voluto entrare in contatto con un certo tipo di industria a lui fin'ora remota ed estranea. La pellicola infatti porta chiaramente alcuni geni della sua impronta, specialmente per quanto riguarda la porzione visiva, incalzando con flashback che spezzano la narrazione principale e soprattutto con la volontà di riscrivere un evento biblico servendosi dell'aiuto di elementi fantasy sinceramente poco coerenti e spiazzanti. Elementi che si rivelano presto figli di una libertà autoriale esaurita esattamente laddove va a cominciare la personalità industriale, che impone man mano supremazia e sopravvento avvelenando persino l'attesa alla spettacolarità promessa e doverosa.
Prendendo spunto dall'epicità cugina a un "Signore Degli Anelli" mal riuscito e sfociando addirittura se vogliamo in uno "Shining" indeciso e ridicolo, "Noah" tenta allora di rendersi interessante fantasticando e (re) inventando una Storia di per sé già poco richiesta e conosciuta, si concentra su uno spaccato minimo della Bibbia e lo colora a immagine e somiglianza di un Aronofsky poco convinto e confuso e che, nelle occasioni in cui la sua mente tentenna, si guarda bene dal rilanciare la mano con battaglie e scenate esistenziali o familiari sterili e poco convincenti. La sensazione di un'operazione sostanzialmente fragile e mal studiata, nonostante venga subito percepita, trova infine concretezza inequivocabile nella moralina infilata quasi ad uso di scotch e colla, che vede l'essere umano forma vivente propensa al male e alla tentazione, teoria vissuta in prima persona da un Russell Crowe spesso sopra le righe e dimenticabile e da suo figlio Cam, (interpretato da Logan Lerman), al quale forse si poteva (doveva?) concedere molto più spessore ed espressione.
Evitando di andare ad incastrarsi in teorie personali o ciniche su religione e Dio, ma limitandoci ad analizzare unicamente il lavoro finito, c'è da dire che anziché cucire un trattato umano, esistenziale, teologico, Aronofsky affonda letteralmente in un vortice insulso e incomprensibile, non trova la forza di lasciare un segno e manca l'appuntamento che la sua carriera gli aveva organizzato verso le porte di una nave sicura e inaffondabile. Il passaggio dalle piccole alle grandi produzioni resta pertanto materia non accessibile a tutti, d'altronde se così non fosse stato, James Cameron, oggi, sarebbe solo uno dei tanti.
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