La campanella che annuncia la fine delle lezioni non ha ancora finito di squillare e già nelle mani dei miei ragazzini, tutti undicenni appartenenti alla specie “homo digitans“, si materializzano gli immancabili smartphone.
Nel giro di pochi secondi la maggior parte dei miei pargoli è connessa con il resto del mondo e ricomincia a comunicare dopo le ore di “silenzio radio” imposte, non senza difficoltà, dal regolamento scolastico.
Ogni tanto mi chiedo come facessimo a comunicare noi, undicenni di mezzo secolo fa, che avevamo in casa un telefono nero come uno scarafaggio appeso al muro, spesso funzionante con un contratto duplex (che significa che si poteva telefonare se non stava telefonando l’altro utente connesso alla stessa linea e che dovevamo fare telefonate brevissime), noi che andavamo al “posto telefonico pubblico” e aspettavamo per ore la comunicazione, noi che giravamo appesantiti da chili di gettoni per poter chiamare da una cabina pubblica il fidanzatino di turno (alla faccia della privacy).
E’ passato tanto tempo che quasi non me lo ricordo più, ma è ovvio: noi non telefonavamo, noi andavamo sotto casa degli amici e suonavamo il campanello oppure ci davamo appuntamento in piazza o all’oratorio o a casa dell’uno o dell’altro.
Noi ci mandavamo messaggini, non chattavamo, non giocavamo online, giocavamo guardandoci in faccia, ci scambiavamo segreti guardandoci in faccia, litigavamo guardandoci in faccia e guardandoci in faccia facevamo pace, dimenticandoci quasi subito del litigio (avevamo l’enorme vantaggio di non poter salvare i nostri battibecchi su whatsapp).
Cero non potevamo farci dei selfie, ma non mi sembra un grosso guaio: siamo diventati grandi ugualmente senza sms, senza chat e, soprattutto, senza “guinzaglio lungo”.