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Noi, la guerra e la Libia del Califfo

Creato il 13 marzo 2016 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
generale-renzidi Gigi Montonato. Da più di due anni Matteo Renzi governa l’Italia, pressoché da solo. Lo hanno detto tanti osservatori politici e politologi che non è davvero il caso di insistere. Nel corso di questi due anni egli ha fatto tanta propaganda, per la quale occorre riconoscere abbia una spiccata vocazione. Ci sono state le riforme, quella del lavoro, pomposamente detta Jobs-act, e della Costituzione. Per la prima, fino ad oggi è stato più il fumo che l’arrosto. Per la seconda, non si può dire al momento che sortirà e se sortirà.

Per il resto è stata routine, che neppure i suoi oppositori interni e lo scalmanato Salvini sono riusciti a vivacizzare. A tratti ha pensato lui stesso a creare rumore col suo solito nazionalismo, che sta al vero nazionalismo come il calcio in costume sta al calcio vero. Ha tentato perfino di renderlo più credibile, il suo nazionalismo, litigando col Presidente della Commissione Europea Juncker per via dei suoi insulti alla Commissione, e perfino col Cardinal Bagnasco a causa del voto segreto per la legge sulle unioni civili. Defensor Reipublicae con l’uno, dello stato laico con l’altro appare!

Solo in questi ultimissimi tempi, ma la cosa è nata con l’abbattimento del regime di Gheddafi, e cioè dall’ottobre del 2011, si è trovato di fronte ad una gravissima crisi internazionale, quella della Libia e delle armate dell’Isis alle porte di casa nostra.

Non occorre avere molta paura o molta immaginazione per capire che noi, per storia politica e vicinanza fisica, siamo i più diretti interessati a sistemare le cose libiche. Senonché, mentre gli altri da tempo e senza strombazzamenti sono impegnati concretamente in Libia, in modi e mezzi diversi, noi ancora non abbiamo deciso che fare. Continuiamo a dire di non volerci affrettare ad avventurarci in situazioni pericolose, perché – dice Renzi – la guerra è una faccenda seria, non è cosa da videogiochi. E torniamo alle trovate propagandistiche. Non si stanca mai di atteggiarsi a saggio. Parla come un vecchio. Parla…

E, propaganda per propaganda, ha preso la palla al balzo dopo un’intervista dell’Ambasciatore statunitense a Roma sul “Corriere della Sera” del 4 marzo, nel corso della quale il diplomatico ha detto che l’Italia interviene in Libia con cinquemila uomini, per assumere il ruolo del difensore della sovranità nazionale. Evidentemente era una decisione già presa nell’ambito Nato; o comunque se n’era parlato. Se no, da dove tirava fuori la cosa l’Ambasciatore? Ma, dio liberi! Come si permettono di dire a noi cosa dobbiamo fare? E giù trovate propagandistiche, inneggianti alla pace, all’equilibrio, alla sovranità dell’Italia. Come se gli altri in Libia fossero andati per divertimento, non perché c’è un grosso pericolo che minaccia anche noi!

Qualche tempo addietro il professor Angelo Panebianco, editorialista del “Corriere della Sera” e ordinario presso l’Università di Bologna di Sistemi Internazionali Comparati, richiamava in un suo fondo la nostra impreparazione in Libia. Lasciamo stare quel che è capitato a Panebianco da parte del braccio armato delle sinistre italiane, che dove non arrivano con le parole arrivano con le mani, è importante notare come in difesa del professore non si è levata nessuna personalità politica, men che meno lui, Renzi, che un twitter di auguri, complimenti e solidarietà non lo nega a nessuno. Panebianco è passato per un assassino e guerrafondaio e gli è stato impedito per ben due volte di tenere la sua lezione.

Ora nessuno, salvo che non sia un pazzo, vuole la guerra; ma nessuno, che non sia un furbastro o un vigliacco, vuole che la guerra la facciano gli altri per noi. Non solo perché sarebbe vergognoso contare sugli altri per salvarsi il culo, ma soprattutto perché chi la guerra la fa, poi vuole giustamente beneficiare degli effetti. Non è che, a guerra finita, l’Italia parta lancia in resta come se la guerra l’avesse fatta lei? C’è da giurarci che lo farebbe; lo ha fatto altre volte.

Intanto due nostri connazionali rapiti sono stati uccisi e non sappiamo da chi e perché, mentre altri due sono stati rilasciati, anche per questi non si sa perché. Il ministro Gentiloni ha detto che non è stato pagato nessun riscatto. Per favore, si taccia almeno su vicende così tragiche! Questa storia del riscatto “che non paghiamo” è davvero mortificante. Intanto i guerriglieri del Califfato usano armi chimiche, come è già accaduto in Iraq. La minaccia che prima o poi ci attacchino è concreta, come concreta è la minaccia di atti terroristici nel nostro Paese. Più tempo passa e meno possibilità di scelta abbiamo. Non avere fretta in situazioni del genere è importante; ma essere lenti fino all’esasperazione può essere letale.

Sulla guerra bisogna essere chiari. Quando l’abbiamo fatta, dalla prima guerra d’indipendenza (1848) all’ultima (1940), ci è andata male, con l’eccezione della Grande Guerra quando fummo sull’orlo della disfatta. Sappiamo che in Italia non siamo liberi di decidere. C’è il Papa, che, senza usare parole esplicite, condiziona comportamenti e scelte degli italiani. Che vogliamo? L’occhio del padrone sazia il cavallo. I politici italiani dipendono elettoralmente dalla chiesa per un buon cinquanta per cento. In genere non dicono e non fanno niente che dispiaccia al papa. In Italia c’è una sinistra in servizio permanente effettivo, una sorta di gendarmeria del sistema, in grado di mettere sottosopra intere città per impedire scelte politiche del governo non gradite. Mi riferisco ai centri sociali, cosiddetti, che sono i padroni della piazza.

In considerazione di questi e di altri fattori, che per carità di patria teniamo per noi, bisognerebbe dichiararci paese neutrale, come la Svizzera, e di conseguenza uscire dagli organismi internazionali militari. Se a tanto non vogliamo arrivare, perché, data la nostra posizione geografica, non possiamo neppure, dobbiamo convincerci che la guerra può diventare una costrizione. E allora, Papa o non Papa, Renzi o non Renzi, centri sociali e non centri sociali, bisogna farla e cercare di vincerla.


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