Noi non sappiamo da che anima nata
e sei da per tutto indifesa
[dall'epistolario inedito]
Io sono un uomo perseguitato dal mio terrore di rivelare sentimenti assurdi e di disgelare ogni mio affetto più sano corrotto da ogni possibile assurdità. (…) questo è il motivo per cui è esistito sempre in me l’istinto di sviluppare fino a un grado massimo la poesia, per compensarmi dell’amore che non ho e non ho potuto avere.
E’ certo, secondo me, che il poeta non conclude quasi mai nulla e che solo qualche volta conclude qualcosa, e sempre ben poco… Tuttavia dirò una cosa, che credo della massima importanza per la poesia in genere, e cioè, che il problema della poesia non risiede tanto e solamente in quello che possiamo chiamare poesia scritta, quanto, e massimamente, nei problemi più urgenti per una sempre più equa giustizia sociale. Che cosa ha da fare, si potrebbe domandare, la poesia con la giustizia e con il senso della giustizia?
Non intendo proprio riferirmi a quella che si può chiamare “poesia populista” che molto raramente, forse, riesce ad essere vera ed effettiva poesia o a suggerire qualcosa che sia come la sostanza ed il midollo della giustizia e del senso della giustizia.
La scrittura (…) tende sempre ad essere null’altro che un’opera giuridica, cioè l’adempimento teorico della perfetta giustizia (…). Credo tuttavia che nella vita tutto (…) anche quando sembra esserci malafede nell’animo degli individui –tende all’adempimento della giustizia (…). Solamente da chi ha cognizione del maggior numero di problemi può attendersi un’opera, qualunque essa sia scritta o non scritta che contribuisca originalmente all’espandersi della vita in nuove zone.
La poesia… è quasi del tutto immediatezza e quasi del tutto assenza di lavoro.
E la fase preparatoria a questa immediatezza come sarebbe? Forse lavoro più di quanto ne richieda la scienza per attuarsi… Comunque il poeta precedentemente al poetico (…) quando non azzarda e gioca col caso sarebbe un quasi puro religioso.
… Sebbene non mi sia dedicato tutta la vita a scrivere versi e per molti, quasi moltissimi anni direi, mi sono occupato a fare il medico, son vissuto, dentro la mia professione, quasi interamente, come se scrivessi versi. Ove mi si proponesse di essere felice collettivamente, credimi, non avrei nulla a che fare con tale felicità e sono sicuro che rifiuterei. Se dovessi essere mai felice, vorrei ciò avvenisse in modo del tutto individuale a patto che la collettività fosse quasi del tutto nominalistica, non si dovesse sentire il peso della collettività come tale che come tale s’imponesse.
Nato e a lungo vissuto appartato a Melicuccà (Reggio Calabria), Lorenzo Calogero (1910-1961) studiò ingegneria e poi medicina a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1937. Esercitò saltuariamente la professione medica fino 1955, dedicandosi intanto alla filosofia e alla poesia. E’ morto in circostanze mai definitivamente chiarite nella sua casa di Melicuccà.
E vivo di pallidezza
nella dolce illusione