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Noi siamo responsabili

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Martedì 22 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (445): Noi siamo responsabili

Il saggio di Vittorio Zucconi e Valeria Vaccari, Psicologia della responsabilità nella tossicodipendenza è del 1997. Ne venni a conoscenza attraverso il rogersiano Paolo Iaria, per qualche anno Supervisore del gruppo degli Educatori di Libera Mente, in qualità di medico psicoterapeuta, impegnato per 14 anni nella sede di Exodus di Santo Stefano in Aspromonte. Grazie a loro, abbandonai l’idea iniziale dell’“irresponsabilità” del tossicodipendente.
Pensare questa ‘responsabilità’ non è mai stato facile: bisogna fronteggiare la ‘naturale’ tendenza del tossicomane alla manipolazione, ma nello stesso tempo bisogna cercare un varco in cui inserirsi per comunicare con la sua parte sana. Solo in questo modo è possibile prendersi cura della persona che si rivolge a noi in cerca d’aiuto.

La prima competenza da sviluppare è proprio nella capacità di tenere insieme gentilezza e fermezza: l’accoglienza rispettosa e affettuosa accompagnata a lucido scetticismo sulle parole non verificate con la famiglia.
La prima mossa della ragione è data dalla proposta di aprire il ‘confronto’ con la famiglia: di solito, usiamo l’argomento che vogliamo ottenere almeno il risultato che la famiglia non danneggi emotivamente il lavoro che facciamo; successivamente, diremo che la famiglia ‘ci serve’, perché riteniamo che debba essere aiutata ad uscire dall’assedio in cui necessariamente si è chiusa. A tutti diremo che la ‘droga’ si combatte a viso aperto, senza trucchi, senza accordi segreti con nessuno. Per questa via, il ragazzo si trova sempre più ‘stretto’ tra gli obblighi a cui viene chiamato: accordi di ogni genere saranno tentati, per tastare il suo grado di ‘libertà’, la responsabilità che è in grado di esprimere.

Quando ho avviato l’esperienza di volontariato, nel 1989, ho scelto, tra le altre formule propiziatorie, le parole del sociologo tedesco Sigfried Kracauer: «La realtà si comprende a partire dai suoi estremi». Per molto tempo, ho pensato che per comprendere la salute, la sobrietà, la normalità occorresse concentrarsi sulla malattia, sull’eccesso, nel nostro caso, sulla dipendenza. Il risultato non è dato per ‘sottrazione’, cioè ‘togliendo’ tutte le condotte disfunzionali. Non basta immaginare che si debba esser sobri. Nemmeno aiuta pensare ‘per confronto e contrasto’: paragonata a quella del ‘malato’, la nostra vita ‘normale’ sarebbe sempre preferibile, come se anche in essa non si annidasse il germe del dubbio, il gusto dell’avventura, l’amore del rischio, la tentazione del gesto irresponsabile! Anche a noi piace bere il buon vino. Chi deciderà per noi fin dove sia prudente spingersi? Insomma, siamo liberi. Quando ci svegliamo al mattino, non sappiamo se ci faremo guidare da un demone buono o da un demone cattivo. Siamo esposti, come i nostri ragazzi, che si perdono nel gorgo muto della dissolvenza, a cui amano abbandonarsi per dimenticare quanto sia insopportabile consistere in questo tempo, in questa città, in quest’ora della vita. Occorrono buone ragioni per non cedere all’angoscia di morte che ci attanaglia. Il nostro destino dipende in gran parte dalla capacità di opporci all’ineluttabile e all’immensurabile, per arrivare a consistere qui e ora, paghi di quello che abbiamo, anche se dappertutto risuonano le grida scomposte di chi soccombe sotto i colpi di fortuna.


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