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Non aprite quella Porta (2003)

Creato il 24 maggio 2010 da Elgraeco @HellGraeco

Prima di cominciare, una promessa: scriverò anche un articolo sull’originale del 1974. Presto o tardi.
Il remake è un modo affascinante, tutto anglo-americano, di dire rifatto. Rimestato, nella fattispecie. Il remake è [generalmente] materia di scarto. Non originale per antonomasia. Riarrangiato e buttato lì, nella speranza di fare un po’ di quattrini per poter infine mostrare al mondo che l’autore di turno non è capace di fare solo un remake… ma anche tanti altri. D’accordo, d’accordo, non lo dovete neanche dire. Ogni tanto, molto di rado capita un buon remake, anche se, stranamente, a pensarci così, su due piedi, ora non mi viene in mente nessun titolo in particolare. In questo frangente, il figuro a cui mi riferisco è Marcus Nispel, regista che l’anno prossimo ci delizierà con la riedizione di “Conan il Barbaro”, dove il cimmero, alto, bruno e coi fiammeggianti occhi azzurri è divenuto un hawaiano con le treccine. E questo tanto per iniziare. Nulla contro le Hawaii, è ovvio, ma il fatto è che Howard parla chiaro nei suoi racconti: Conan è quello che è.
Con questo remake omonimo, Non aprite quella Porta (The Texas Chainsaw Massacre) Nispel e le case di produzione (New Line Cinema, Platinum Dunes e Radar Pictures) hanno incassato una valanga di quattrini. Almeno dal punto di vista finanziario l’operazione è stata una furbata colossale, coronata dal più ampio successo: stiamo parlando di oltre cento milioni di dollari, contro gli appena nove di budget.
Inevitabile, per alcuni, specie se si è avuta la fortuna di vedere l’originale, costruire paragoni e elencare le differenze. Operazione, questa, che non ho intenzione di fare.
Differenze? Sì, ce ne sono. E quasi tutte quelle che si scorgono, più o meno evidenti, sembrano frutto dell’assunzione di funghi allucinogeni da parte dello sceneggiatore che ha rimaneggiato lo screenplay del 1974 di Tobe Hooper. Per cui, finiamola qui col toto-differenze e concentriamoci solo sul film in esame.

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La Casa degli Orrori

Non so voi, ma questo tipo di trama, ragazzi che viaggiano e vengono sterminati da orchi deformi, a me sembra una versione allungata e meno essenziale del viaggio attraverso la Casa degli Orrori in un qualsiasi Luna Park. Gli orrori o sedicenti tali stanno sempre dietro la prossima svolta e in essi ci si deve imbattere per forza, secondo un percorso obbligato. Visto che la trama è tutta qui, che si tratti di survival horror o uno di quegli altri sottogeneri astrusi non importa granché. Un film di questo tipo si regge esclusivamente sull’interesse suscitato da ogni singola scena e sulla bravura degli attori. Non occorre altro.
Questo qui si regge sul c…, ehm, sulle… chiamiamole spalle, va; sulle spalle, dicevo, di Jessica Biel che in jeans, scarponi, maglietta bianca attillata e cappello da cow-girl all’inizio sembra una sorta di marionetta, ma sulla lunga distanza rivela ottime potenzialità da impareggiabile scream queen. Dote inattesa e, per quanto mi risulta, non coltivata successivamente, avendo preferito perdersi dietro pessime sceneggiature, ulteriori remake, e uno striptease di tutto rispetto, condito da cera di candele bollente in “Powder Blue”.

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Mai dare un Passaggio ad uno Sconosciuto

Jessica, qui Erin, sta tornando dal Messico con un furgoncino insieme al suo ganzo Kemper (Eric Balfour) e ad altri tre amici Morgan (Jonathan Tucker), Pepper (Erica Leerhsen) e Andy (Mike Vogel) oltre che a un cavalluccio di pezza imbottito di marijuana; i cinque, insieme al pupazzo, si stanno recando ad un concerto dei Lynyrd Skynyrd. Tra una canna, una canzone e una battuta incontrano lungo la strada una ragazza in evidente stato confusionale (Lauren German) alla quale, impietositi e sinceramente preoccupati, decidono di dare un passaggio con l’intenzione di portarla al più vicino ospedale. Durante un breve tragitto la ragazza, tramutatasi per l’occasione in una profetessa di sventure, trova il tempo di estrarre una pistola, opportunamente nascosta e/o sistemata nelle parti intime, e di farsi saltare le cervella.
I cinque, con un cadavere in macchina che già inizia a puzzare a causa del caldo umido, si fermano ad una stazione di servizio/macelleria/mattatoio per telefonare allo sceriffo locale e denunciare l’avvenuto suicidio.
Da questo momento in poi, non fosse bastata la serie di faccette buffe messe su dal quintetto in occasione del trapasso della ragazza, inizia il vero delirio. Un delirio tale che contagia quasi ogni singola situazione inscenata successivamente e che nulla, proprio nulla a che fare con la verosimiglianza.
Sia come sia, i nostri protagonisti impareranno a loro spese quanto sia veritiero [questo sì] il detto che ogni buona mamma recita al proprio figlio [o figlia], detto reso immortale già da “The Hitcher”: “mai dare passaggi agli sconosciuti”.

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La Pulizia del Mostro

Ora, io posso capire tutto e sono, fondamentalmente, uno spettatore di bocca buona, nel senso che ho gusti che spaziano dal cosiddetto cinema alto a quello terra terra. Mi diverto con poco. E, pur considerando questo un pessimo film, mi ci sono pure divertito. Quello che proprio non capisco è perché il mostro deve vivere in un porcile.
Faccia di Cuoio (Leatherface), qui interpretato da Andrew Bryniarski è un ragazzone robusto, in salute, a parte le deformità del viso [peculiarità che qui è sbattuta in faccia allo spettatore senza troppo lirismo, non tanto per giustificare, ma per motivare le azioni spietate del personaggio] e, per essere cresciuto così forte, deve essersi nutrito bene, questo è fuori discussione. E, allora, perché mai vive in una casa fatiscente, costantemente a rischio di crollo, date le infiltrazioni in cantina, nel luridume più incredibile, mangiando presumibilmente la stessa carne che la sua famiglia macella e vende , piena di larve di mosca e accompagnata da effluvi maleodoranti? Perché il mostro, o in questo caso, la famiglia dei mostri, devono, oltre a essere brutti e deformi, come gli orchi delle fiabe, essere anche sporchi e puzzolenti? Lo sanno anche i bambini che a mangiare la carne putrida non si vive a lungo. E non è che i mostri sono immuni a malattie o infezioni letali di sorta. Però, la tana del ciclope lurida, modello “fogne di Calcutta” fa tanto horror, per cui che il buon senso vada a farsi fottere…
È proprio questa caratterizzazione, ovvia e stantìa, manichea, che vuole il brutto tentare in ogni modo, tramite una motosega rombante, di sfigurare e distruggere, fino a possedere nutrendosene [anche se il cannibalismo non è esplicito] il bello, la cosa che più infastidisce in questo film.
Nulla di particolarmente nuovo e originale. Nota comune, anzi, a tante altre pellicole. Solo che qui dà sui nervi perché resa, in definitiva, in modo troppo gratuito, netto, preciso e senza ombre. E parlo solo di bene contro male.
Per il resto, è un susseguirsi di inseguimenti che strizzano l’occhio al capostipite, di situazioni paradossali tanto più imbarazzanti quanto idiote, tipo la scena dell’arrivo dello sceriffo o quella del rinvenimento di una dentiera tra le carcasse di auto abbandonate fuori della proprietà degli Hewitt (la famiglia degli assassini) con Pepper che si limita ad esclamare: “Oh! Sono denti umani!” e, per tutta risposta, il gruppo decide, come se nulla fosse, di continuare a starsene in zona per cercare il loro amico (Kemper) scomparso. E cosa mai potrà essergli successo? Chissà.

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The Wrestler

Uno spreco, oltre alla gratuità di motivazioni, anche l’impiego di un attore quale R. Lee Ermey cui è stata affidata la parte dello Sceriffo sadico e maniaco sessuale e della stessa Jessica Biel che, ripeto, oltre a vincere il titolo di “Miss Maglietta Bagnata 2003″, dato che, di tanto in tanto, finisce in acqua rendendo la sua maglietta aderente ancor più aderente, mostra, soprattutto nelle sequenze finali ambientate nel mattatoio, un’insospettabile sintonia col personaggio, recitando inzuppata, sporca, tremante, in mezzo a vacche e maiali e tuttavia risultando credibile. Non sto dicendo che grazie a lei il film si risollevi, per carità, ma è pur sempre un segnale di abilità poi definitivamente trascurato. Un errore, per quanto mi riguarda. O forse sono solo accecato dagli ormoni. Scandaloso anche il fatto che, nonostante si potesse osare e regalare visioni splatter d’altri tempi, qui si sia invece mostrato anche meno, in termini di violenza rappresentata o evocata, di quanto si era fatto trent’anni prima, in nome di un’autocastrazione chimica che fa rima con sedicente “buon senso” e paura di “osare troppo”.
Per il resto, è un filmetto degno del martedì sera, di quella “Notte Horror” che tanto mi manca. Netto, desaturato, pulito, dove l’eroina è bella e inarrendevole, gli anni settanta sono tali solo perché “c’è scritto così” e il mostro è il Cattivo, veste i panni del mito e non fa nessuna paura nonostante maneggi con perizia la sua motosega sembrando, più che altro, un wrestler tutto agghindato in attesa di salire sul ring e fare spettacolo. Spettacolo che tutti sappiamo essere montato ad arte.

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Bonus track: “Sweet Home Alabama” (Lynyrd Skynyrd, 1974)

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