Non bisogna essere sismografi

Da Marcofre

Quando si desidera fare dei complimenti a un autore, spesso gli si dice che è “sensibile”. Che egli ha una tale capacità di scrittura perché la sua sensibilità è talmente portentosa, da permettergli di conseguire il risultato di comporre storie meravigliose.

Da un po’ di tempo sto riflettendo su questa definizione, cercando di capire se è davvero utile, o se non si tratti piuttosto di un gigantesco fraintendimento. Sì mi rendo ben conto che pare “sensata”, esatta; e poi, si tratta spesso di un complimento, perché star lì a pensarci su?

Però non riesco a rassegnarmi a essa, e anzi alla fine sono giunto alla conclusione che sia superficiale.

Non bisogna essere sismografi, quindi sensibili a ogni battito del cuore, o respiro.

Al contrario.

Perciò occorre pensarci su, meditare e riflettere perché diventa importante capire (o provarci), che cosa diavolo fa, o dovrebbe fare, un autore. Sì lo so, scrive. Cosa? Della vita? La risposta è certamente generica, ma possiamo accettarla. Qualcosa di un poco più concreto? Vediamo: ecco, magari scrive di persone, di carne e sangue. Così va già meglio: i personaggi di Tolstoj, o Cormac McCarthy, non sono certo puri spiriti che gironzolano in questo mondo, sospirando e gemendo, giusto? Quelli dello scrittore statunitense, non di rado sanno maneggiare bene le armi, secondo una tipica abitudine americana.

D’accordo: e poi?

Se accettiamo l’affermazione bisogna in un secondo tempo riflettere su quali sono i mezzi più adatti per conseguire questo scopo. L’autore deve osservare, con tutti i suoi sensi. Osservare non vuol dire affatto passare lo sguardo su tutto quello che c’è, e concludere che tutto è buono. “Osservare” come si sa significa serbare, quindi l’occhio, i sensi, non devono essere pronti ad accogliere tutto, ma è necessario creare una gerarchia, scegliere. Questo si tiene, quest’altro si getta.

Certi autori, Raymond Carver, o Richard Yates, o Flannery O’Connor, non si fermano mai alla superficie, ma scendono in profondità. Fermarsi al primo “strato” della realtà rischierebbe di sconfiggere alla grande l’autore; la superficialità è una specializzazione della televisione, e giocare sullo stesso terreno significa più o meno suicidarsi.

La domanda che mi sono posto quindi è stata: in questa scoperta di ciò che va oltre, che scende a frugare il mistero dell’essere umano, serve la sensibilità? Oppure si tratta di un intralcio? Deve guidare il sentimento (quindi: la sensibilità), oppure lo sguardo, i sensi, e questi devono per prima cosa badare a essere acuti, chirurgici?

Per adesso la mia risposta è: niente sensibilità.

Non è la sensibilità che aiuta a cogliere i dettagli. È la medesima visione che abbiamo, e che gli altri non possiedono (o non desiderano possedere?) che spinge a cogliere i dettagli, le sfumature. Siccome chi scrive deve badare all’arte, o almeno tendere a essa, in questo sforzo anche una tazza o un paio di forbici hanno qualcosa da dire. E lo dicono non perché siamo sensibili, o dotati di sensibilità. Ma affinché la visione delle cose, priva di retorica, possa essere di valore ed efficace, è necessario a parer mio una precisa durezza, e una freddezza nell’incidere, e nello scendere in profondità, più simile alla cattiveria, che alla sensibilità.


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