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Non chiamatela passione

Da Demopazzia

Non chiamatela passione

Son passati quasi otto anni ma quella domanda me la ricordo come se fosse oggi. Ci eravamo conosciuti da poco ma intimità e passione si fecero strada ben presto e cosi, mentre giacevamo avvolti nelle lenzuola di un letto singolo di una camera doppia di uno studentato di Londra con la moquette per terra e delle finestre enormi e mal dipinte, lei mi chiese che cosa avrei fatto se mi avesse lasciato. Mi chiese se avrei lottato per lei, per riconquistarla. Il mio problema è che spesso sono sincero più di quanto vorrei. Probabilmente avrei dovuto rispondere che l’avrei seguita in capo al mondo che le avrei regalato dei fiori o dei gioielli, che mi sarei iscritto in palestra, che mi sarei trovato un lavoro migliore, che l’avrei chiamata cento volte il giorno, che le avrei cantato delle serenate. Invece non le risposi niente di tutto questo. Le dissi che se lei avesse smesso di amarmi io non ci avrei potuto fare niente. Un mazzo di fiori non l’avrebbe fatta innamorare di nuovo di me perché non era quello che l’aveva fatta innamorare di me la prima volta. Forse qualcuno potrebbe pensare che una risposta del genere denotasse uno scarso interesse da parte mia. In realtà provai a immaginarmi un paio di situazioni. Che cosa avrei potuto fare se lei si fosse invaghita di un altro? Cercare di dimostrargli che ero migliore del nuovo tipo? Costringere il nuovo concorrente a lasciar perdere onde evitare di andare incontro a delle ritorsioni da parte mia? La verità è che non credo ci sia molto da fare in situazioni come queste. Ciò non impedisce che poi quando ti ci trovi, tu ci perda le notti e anche i giorni a pensare a cosa potresti farci. Nella migliore delle ipotesi t’imbruttisci, ti deprimi, diventi quello che non pensavi saresti mai diventato, senza peraltro risolvere un granché.  Poi, se ti va bene, a un certo punto capisci e lasci andare. Per quanto mi riguarda, quello che mi ha salvato, è stato avere accanto delle persone che mi hanno detto di non riconoscermi più. Quello che mi ha salvato è stato anche capire che nonostante le cose fra me e la ragazza in questione fossero andate com’erano andate, io le volevo ancora bene, volevo ancora bene a quello che c’era stato tra di noi e volevo ancora bene a me stesso. Ho capito che l’unico modo per continuare a voler bene a tutte queste cose era uscire dalla sua vita, lasciare che lei fosse felice e lasciare che la rabbia che avevo trovasse un destinatario diverso. Potete stare tranquilli, non avrei ucciso nessuno, ma ripensavo a queste cose leggendo di tutti questi casi di uomini che uccidono donne che non vogliono più stare con loro. Molti giornalisti parlano di raptus di follia quando raccontano di questi episodi. Ma qui i raptus non centrano niente. Molti di questi omicidi sono purtroppo il normale epilogo di un’escalation di violenze. Possono essere verbali, psicologiche, piccole e insignificanti per i più. Eppure spesso se n’è a conoscenza. Tanto che in alcuni articoli si può leggere che il rapporto tra i due era sempre stato “passionale”. Ciò non vuol dire che si sarebbero potuti evitare certi epiloghi. Per fortuna non si può arrestare una persona per un delitto che non ha ancora commesso. Le segnalazioni per alcuni tipi di comportamento possono portare si a delle sanzioni che sono però temporanee e limitate. Ci troviamo di fronte a casi in cui il sistema penale può poco e meno che mai possono gli apparati di sicurezza. Tanto che, nonostante gli otto omicidi in tre settimane, dal Ministero della Paura di Maroni nessuno ha sentito il bisogno di annunciare giri di vite, tolleranze zero o dispiegamento di eserciti. È interessante notare, infatti, come nonostante la copertura mediatica fosse quella tipica in grado di dar vita al panico morale in realtà questi casi scendono rapidamente nell’impaginazione dei notiziari. Mancano degli ingredienti perché degli imprenditori morali si mettano a soffiare sul fuoco chiedendo inasprimenti delle pene o interventi spettacolari. In primo luogo i protagonisti degli omicidi. Non hanno niente in comune. Età, condizioni sociali ed economiche sono diverse e titoli di studio e professioni differenti. Non hanno niente in comune perché chi li guarda non è in grado di coglierlo. In realtà sono tutti uomini, sono tutti bianchi, sono tutti italiani, sono tutti adulti. Categorie nelle quali rientrano coloro che sono in grado di definire che cosa è pericoloso e cosa non lo è. Evidentemente risulta difficile giudicare se stessi pericolosi e prendere dei provvedimenti contro la propria pericolosità. È più facile scatenare l’esercito contro qualche baracca se una sedicenne viene uccisa a coltellate da un rom, ma se la uccide un trentenne laureato con 110 e lode cosa fai? Mandi l’esercito nelle università? No, per fortuna non si può. Quello che si potrebbe fare sarebbe cominciare a riflettere sul fatto che forse nonostante il cianciare di burka e altre amenità la situazione della donna in Italia non è meno critica che in altri paesi e che prima di dar lezioni agli altri bisognerebbe insegnare ai nostri ometti che cos’è l’amore, che cos’è la passione, che cos’è una relazione. Bisognerebbe insegnargli che tutte le cose hanno un inizio e una fine e che dovremmo imparare ad accettarlo. Bisognerebbe ricordarsi che la maggior parte delle donne non muoiono come Giovanna Reggiani, ma come Anna Maria Tarantino, Chiara Brandonisio, Debora Palazzo, Simona Melchionda, Michelina Ewa Wojcicka, Eleonora Noventa, nel silenzio e nell’indifferenza di chi non si vergogna neanche un po’ a chiamare questi omicidi delitti passionali o a descriverli come raptus di follia.

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