Non chiamatelo precario
Creato il 20 giugno 2011 da Bagaidecomm
@BagaideComm
“Siete l’Italia peggiore”E’ bastata questa affermazione, per mettere il Ministro Brunetta nella scomoda posizione di chi, dopo averla detta grossa, deve cercare spiegazioni. Alla fine la precisazione è stata questa: destinatari dell’invettiva non sono i precari in quanto “classe”, ma i contestatori sistematici. Si tratta del caso paradigmatico della contrapposizione tra classe “dirigente”, superficiale e ormai estraniata rispetto al corpo sociale (salvo quando c’è da raccimolare voti), e una fetta sempre più consistente di popolo italiano: i lavoratori precari. Quelli del “qualche mese e vai”, quelli che, convenendo economicamente, fanno girare il mercato del lavoro, insieme agli stranieri. Eppure non era questa la ratio delle leggi che istituzionalizzavano nuove forme di rapporti di lavoro a tempo determinato; lo scopo era quello di favorire la mobilità in un mercato del lavoro ormai statico, saturo e creare nuovi posti di lavoro. Come per ogni buona idea, il caso italiano riesce a capovolgerlo e trovare il lato negativo. Questo è dovuto ad una serie di fattori tra cui il perduto senso del concetto di “imprenditore” in senso tradizionale. L’imprenditore è colui che fa soldi, in un’ottica originariamente anglosassone, non colui che porta avanti, organizza, una cultura del lavoro, della produzione, del benessere sociale. Fare soldi (come perderli) si fa anche presto, e appena fatti i primi bisogna fare i secondi, e così via; l’economicità non conosce la dimensione “verticale” del fattore lavoro, ossia lo sviluppo umano e sociale, ma solo quella “orizzontale”, vale a dire il costo. Mantenere il costo del lavoro implica o puntare su chi si accontenta di un basso salario (lo straniero, nella maggior parte dei casi), o puntare sul mantenimento di ampie fasce di “precari”, che per serietà professionale o nell’attesa di un contratto a tempo indeterminato danno il massimo dell’impegno, col minimo dispendio monetario del datore di lavoro. Oltre a loro, abbiamo una schiera di soggetti più o meno interessati e certamente sciacalli. Mi riferisco a sigle sindacali, ad esempio; sindacati che non riusciranno forse mai a trovare (non vorranno, sarebbe più arguto dire) una soluzione definitiva al problema, in quanto la soluzione significherebbe la fine del loro ruolo politico (limitandosi a sorta di “avvocati del lavoratore”). E perché mai rinunciare al proprio ruolo politico, quando si può ottenere molto più dal compromesso di volta in volta, o sarebbe meglio dire ricatto? Perché passare dal ruolo della protesta a quello della proposta? Quale organizzazione politica avrebbe l’interesse a non mantenere rapporti di reciproco scambio (voti vs contentino) con i sindacati? Risolti i problemi, come rinnovare i programmi politici, come porsi nuove sfide? Insomma, sicuri che non convengano i soliti slogan piuttosto che una politica della decisione? E’ una serie di domande retoriche che meglio rappresenta l’idea di un paese fermo. Fermo e (ri)piegato su se stesso, da un cancro che ha un nome: usura, e molti padrini: gli interessi di parte. Pluralità non è automaticamente bontà, giustezza. “Usura arrugginisce il cesello arrugginisce arte e artigiano… Usura soffoca il figlio nel ventre… si frappone tra i giovani sposi” scriveva il poeta E. Pound in uno dei suoi più famosi componimenti. Il precariato è una delle tante facce dell’usura. Cosa contestare a Brunetta, che non debba essere contestato a tanti altri? E’ stupido, insensibile il Ministro che esprime una sua posizione (per quanto dettata dal momento d’agitazione), o tutti coloro che sfruttano il livello mediocre del lavoro, della società per campare loro stessi?
S. Beccardi
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