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"non ci possiamo piu' permettere uno stato sociale" - vero o falso?

Creato il 23 ottobre 2012 da Alessandro @AleTrasforini

Sempre più spesso si leggono e sentono frasi del tipo "E' giunto il momento di tirare la cinghia", "Abbiamo vissuto per troppo tempo al di sopra delle nostre possibilità!", "E' ormai necessario perseguire una razionalizzazione della spesa che vada forzatamente a colpire lo stato sociale", [...]. Le infinite frasi che caratterizzano questo periodo storico trascinano nel dibattito quotidiano concetti e problemi che, fino a poco tempo fa, erano completamente immersi nei più sordi silenzi: debito pubblico e sua sostenibilità, 'crescita' economica, controllo sui tassi di interesse con cui ripagare i creditori, agenzie di rating, spread, speculazione, mercati finanziari, [...]. La percezione comune che va aumentando riguarda, nei fatti, la soluzione principale adottata per la risoluzione di questi problemi: è possibile riparare a danni finanziari attingendo credito e risorse dalla cosiddetta 'economia reale'. E' un pò questo che sta accadendo (più o meno) in tutti i Paesi affetti da questa lunga crisi: fra una Manovra e l'altra, il verbo maggiormente associato all'economia è 'tagliare'. Tagliare nel sociale, tagliare tutta quella spesa definita genericamente 'improduttiva': può così accadere che, in caso di 'spending review', vengano apportati tagli al numero di posti letto negli ospedali. Il 'taglio' fa ormai stretta rima con necessità di rivedere le spese maggiormente incluse nel cosiddetto 'stato sociale': istruzione e sanità solo per citarne alcune.  Il minimo comune denominatore di tutte queste situazioni sembra coincidere, purtroppo, con un'unica sola frase:  "Non ci possiamo più permettere uno stato sociale." Serve privatizzare, serve riformare per mettere 'in sicurezza' conti pubblici devastati.  Sono però sempre vere queste affermazioni? Siamo davvero condannati ad adeguarci alle necessità imposte dal 'precariato eterno'? Siamo realmente prossimi al riscoprire una nuova epoca all'insegna del 'meno diritti per più lavoro'?  A queste e moltissime altre domande cerca di rispondere l'e-book di Federico Rampini, secondo cui la risposta più sintetica a questa domanda coincide con un lapidario "Falso". A quanti e quali traguardi dobbiamo (e dovremo) rinunciare per scongiurare il default dello Stato italiano e, pertanto, la probabile fine dell'Unione Europea? A quali rinunce dovremo abituarci? La condizione iniziale da qui partire consiste, secondo l'autore, in un discorso da intraprendere con estremo realismo: "Vista dagli Stati Uniti, la nostra Europa è economicamente defunta. E con lei affonda per sempre una certa idea della solidarietà, dei diritti di cittadinanza: il 'modello sociale europeo'.[...] Vi sono [...] tanti europei espatriati qui in America: quando li incontro [...] possono avere qualche nostalgia, qualche slancio di affetto e di rimpianto verso la qualità della vita nel Vecchio Continente, ma finiscono i loro discorsi con una diagnosi spietata e sempre uguale: 'Non ce lo possiamo più permettere'. Se ne sono convinti anche molti europei che vivono in Europa. [...]" Esiste qualche rimedio a quello che sembra per molti un destino ineluttabile ed inevitabile?  Quali margini di miglioramento resistono, contrariamente a quello che sembra divenuto un pensiero comune?  E' forse vero ciò che sostenne Reagan, secondo il quale "lo Stato non è mai la soluzione, lo Stato è il problema"?  Molte di queste domande trovano altrettante risposte nelle modalità di azione che i Paesi europei stanno mettendo in opera relativamente alle politiche economiche; su questi fronti si stanno giocando importantissime 'partite' anche fra gli economisti:  "[...]Non si esce dalla crisi a furia di tagli, ci ammoniscono. Anzi, l'austerity impoverisce a tal punto l'Europa, che al termine della cura è più indebitata di prima.[...]"  Dibattiti come questi stanno diventando ordinaria e quotidiana realtà, non solamente fra gli 'addetti ai lavori': questi problemi sono fondamentali e, purtroppo, terribilmente pericolosi se non affrontati e risolti in tempo.  In questi fronti si indirizzano i contenuti espressi nel libro di Federico Rampini: guardando all'America in maniera 'biunivoca', quali critiche e punti deboli sarebbe possibile inquadrare nelle politiche socio-lavorative-[...] degli Stati Uniti?  La questione economica e la necessità di 'tagliare' non vanno, però, risolte guardando esclusivamente al rapporto fra Europa e Stati Uniti: quali e quante promesse ha tradito l'Euro(pa)? Potrebbe il sistema socio-economico costruito dissolversi sul medio termine? Rispondere a queste domande equivale, in primo luogo, a fare chiarezza sulle prepotenti deformazioni conseguite dalla finanza e dai cosiddetti 'mercati': l'analisi di questi problemi va svolta, però, senza cedere esclusivamente alle distorte 'teorie del complotto'.  Su questo fronte l'autore dimostra di avere un'opinione chiarissima:  "[...]Prendersela soltanto con la speculazione è come voler rompere il termometro perchè ci dice che abbiamo la febbre alta. [...] La speculazione ha intravisto contraddizioni, incoerenze, storture del disegno europeo, si è infilata nei varchi, si è arricchita su queste che per lei rappresentano opportunità.  Nessuno denunciava la speculazione quando era di segno opposto, e consentiva alle banche europee di rimpinguare i bilanci con finanziamenti a tasso zero.  C'è un'attenzione asimmetrica verso gli speculatori.[...]Finchè l'attenzione [...] si concentra sulla 'caccia all'untore', è un comodo diversivo per governi e banchieri centrali. Inseguire teorie del complotto non aiuta a capire le ragioni profonde di questa crisi.  A cominciare da una ultradecennale perdita di competitività di tutte le nazioni mediterranee nei confronti dell'azionista di maggioranza dell'Euro, la Germania. Quante e quali sono le promesse non mantenute dall'Euro: questo è un bilancio che non possiamo eludere. [...]" Guardare all'Europa è importante per fare un bilancio che va completato, però, riflettendo attentamente sul fondamentale ruolo esercitato da quella che l'autore identifica come 'grande malata': l'Italia, appunto. Il 'male italiano' sembra costituire anche per il futuro l'emergenza più grave con cui il continente europeo dovrà far 'di conto', ancora per troppo tempo.  Quale futuro attende un Paese devastato da una serie mortifera di squilibri comportamentali, etici, strutturali, [...]? Su quali teorie economiche 'alternative' si potrebbe riflettere per cercare di migliorare questa situazione, scegliendo di non compromettere quel bene primario definito come 'stato sociale'?  Mentre falchi, colombe e gufi dibattono, il lettore può con occhio critico informarsi. 

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