Tornerà nelle sale dal 2 al 4 marzo in versione restaurata e rimasterizzata, grazie all’apporto di Mediaset, Melampo, Film&Video e Lucky Red, Non ci resta che piangere, vero e proprio film di culto nell’ambito della cinematografia di casa nostra, almeno ad avviso di chi scrive, una di quelle pellicole capaci di sfidare il tempo, mantenendo salda l’invidiabile capacità di permearsi nell’immaginario collettivo, fra battute e situazioni difficili da dimenticare, con le prime ormai entrate a far parte del lessico comune, spesso in guisa di ironico contrappunto. Il compianto Massimo Troisi e il folletto Roberto Benigni, autori di regia, soggetto e sceneggiatura (quest’ultima ha visto anche la collaborazione di Giuseppe Bertolucci), oltre che principali interpreti, diedero vita, ben 30 anni addietro (l’uscita nelle sale ebbe luogo il 21 dicembre 1984), ad una realizzazione sinceramente divertita e divertente, allegra, spensierata, genuinamente folle, mai volgare, libera da schemi o sovrastrutture, da valutare, oggi come ieri, mettendo da parte qualsivoglia disquisizione squisitamente cinematografica.
Massimo Troisi e Roberto Benigni
Inutile, infatti, fare i sofistici e tergiversare su dettagli tecnici, direzione praticamente assente, vuoti o incongruenze di sceneggiatura, personaggi di contorno appena abbozzati (per quanto rimangano certo impressi il Vitellozzo di Carlo Monni o la dolce Parisina/Livia Venturini, senza dimenticare Paolo Bonacelli nei panni di un rintronato Leonardo), lungaggini ed incertezze di montaggio, in particolar modo nel finale: l’opera va vista essenzialmente, nel suo insieme, come un grande palcoscenico, in costante happening, complessivamente ben curato relativamente a scenografia (Francesco Frigeri) e costumi (Ezio Altieri), cui va ad aggiungersi il bel commento musicale di Pino Donaggio, dove l’estro e la vis comica dei due grandi artisti possono trovare ampio spazio e sfogo.
Il plot narrativo prende piede in virtù di un’apertura-prologo iniziale che ci fa conoscere i due protagonisti, Mario (Troisi), bidello, e Saverio (Benigni), maestro, evidenziandone la diversità caratteriale e di comportamento: il primo timido ed insicuro, capace di mettere in piedi, con piglio logorroico, fondati ragionamenti idonei a mitigare l’aura surreale del secondo, sicuramente più estroso, lunare in certo qual senso.
I due grandi artisti sfruttano all’interno del suddetto proscenio, intelligentemente, senza protagonismi o pose da “prima donna”, la diversità della loro comicità, surreale, giocosa, giullaresca quella di Benigni, meditata, pacata, accompagnata da una forte mimica e gestualità, diluita nei consueti monologhi alternati a pause e borbotti, quella di Troisi.
Amanda Sandrelli
Nei loro splendidi duetti l’irruente toscanaccio e il mite partenopeo rendono evidente l’alchimia di una felice complementarietà, nella capacità di sfruttarsi, scambievolmente, l’uno come spalla dell’altro: è quanto avveniva, restando nell’ambito del cinema italiano, con un’altra “mitica” coppia funzionale alla sana risata, Totò (Antonio De Curtis) e Peppino (De Filippo), non a caso citati, e omaggiati, senza cadere in un facile ricalco, nella scena della lettera indirizzata a Savonarola (“Santissimo Savonarola, quanto ci piaci a noi due…”), ripresa da quella, celeberrima, di Totò, Peppino…e la malafemmina (1956, Camillo Mastrocinque).
Altre sequenze esilaranti, pescando tra le tante, il frate che ricorda a Mario/Troisi la sua fine terrena (memorabile la risposta: “mo me lo segno proprio …”), la “convinzione psicologica” suggerita sempre da Mario di non essere nel 1400, così come il “tacchinaggio d’epoca” che questi esercita in chiesa, per agganciare Pia, alla quale poi si presenterà come artista musicista (“Yesterday…”), il passaggio della dogana reiterato ed elevato ad efficace tormentone (“Quanti siete? Che portate? Un fiorino!”), sino all’incredibile incontro con un Leonardo vagamente stordito, verso il quale Saverio/Benigni avrà non poche difficoltà a spiegare, ricorrendo ad uno stralunato tout pourri, la modernità del XX secolo, dal treno al lapsus freudiano.
Iris Peynado
Il film, infine, per quanti, ma credo ormai siano in pochi, non l’abbiano visto, o per coloro che intendano gioire di una rinnovata visione in sala, può rappresentare una più che valida occasione per riflettere su quanto sia evidente oggigiorno, all’interno del mondo dello spettacolo in genere, sia la mancanza dell’ umorismo elegante, discreto, sottolineato da un’incisiva umanità, di Troisi, il suo sfruttare la napoletanità al di fuori di ogni retorica o luogo comune, sia l’effervescente irruenza di un Benigni ancora genio e sregolatezza, sapientemente al di sopra delle righe, poeticamente lieve e profondo, non ancora impostato nell’attuale presa di coscienza artistica, che, almeno a mio modo di vedere le cose, e pur condividendone l’evoluzione, lo hanno un po’ allontanato da quella irriverenza, insieme gioiosa e giocosa, propria degli esordi. Sono loro a fare la differenza e a conferire spessore artistico ad un’opera idonea a farsi vedere e rivedere, sempre suscitando risate, gaia spensieratezza e, inevitabile, considerando il fluire del tempo e gli eventi che vi ha apportato, un pizzico di nostalgia.