Scusate, San Gennaro non si tocca, va bene. Ma perché si dovrebbe “toccare” San Sebastiano, patrono di Caserta, la cui festa il 20 gennaio è molto sentita? E perché dovrebbero avere meno significato le santità di San Matteo, patrono di Salerno, o di San Bartolomeo, patrono di Benevento? E va bene che il patrono di Avellino vuole apparire umile fin dal nome, San Modestino, ma perché tenerlo in scarsa considerazione se la sua festa cade in una data commerciale, il 14 febbraio, già dedicata a San Valentino e alla “festa degli innamorati”. Insomma, come già diceva il grande Goethe nel suo Viaggio in Italia, “tutto considerato, non c’è che da approvare che vi siano tanti santi; ogni credente può così scegliersi il proprio e rivolgersi con piena fiducia a quello che gli è più congeniale”.
Rispetto il notissimo dettato popolare e dunque lungi da me l’idea di scherzare con i santi. Tuttavia, lo schieramento di forze che è sceso in campo per difendere San Gennaro – cardinale, governatore, sindaco, vicesindaco, assessori, parlamentari, imprenditori, giornalisti, filosofi - ha in sé qualcosa di “miracoloso” perché mette d’accordo tutti quelli che erano in disaccordo su tutto ma, soprattutto, autorizza a porre il problema in questi termini: ci sono Santi patroni che sono più santi di altri? Luciano De Crescenzo, devoto di San Gennaro oltre che di Socrate – ma il suo santo preferito è Sant’Agostino “perché ha inventato il Purgatorio” – nel suo ultimo libro intitolato Tutti santi, me compreso (Mondadori), sostiene, appunto, che siamo tutti santi. Forse, è un’esagerazione, d’accordo, anche se tutti quanti noi che viviamo da queste parti, nel classico “paradiso abitato da diavoli”, un pizzico di santità ce la siamo guadagnata. Però, proprio qui è il punto: perché creare la disparità all’interno della santità? Soprattutto questa disparità non può essere creata con San Gennaro perché proprio il patrono di Napoli fu vittima, anni addietro, di una scortesia del Vaticano: siccome i resoconti del suo martirio non sono sempre attendibilissimi, la Chiesa circa mezzo secolo fa minacciò di toglierlo addirittura dal calendario. Dopo un lungo tira e molla con la curia di Napoli, il Vaticano concesse il culto del santo, ma solo su base locale. San Gennaro, insomma, diventava un santo di “serie B”. Fu allora che sulle mura della città apparvero delle scritte di consolazione con cui i napoletani testimoniarono ancora una volta la loro devozione e ancor più l’affetto per il Santo patrono: “San Genna’, futtatenne”. La stessa cosa dovrebbero fare i Santi patroni ai quali, alla lettera, è stata “fatta la festa”: se ne dovrebbero fottere. Ma sarebbe una consolazione troppo filosofica che non terrebbe presente il cuore di questa storia religiosa e civile.
Infatti, come spiega Marino Niola nel suo libro I Santi patroni (Il Mulino), la pratica devozionale è diventata nel tempo emblema civico. Identificare come petroniani i Bolognesi o come ambrosiani i Milanesi ci fornisce la misura del legame fondativo che la cittadinanza stringe con il santo che ne è il simbolo. Il culto dei Santi patroni è parte dell’identità italiana più di quanto non siamo disposti a riconoscere. Il culto di tutti i santi, non solo quello per il “simpatico santo napoletano” (per dirla con le parole di Croce riferite a Sant’Alfonso Maria de Liguori).
tratto dal Corriere del Mezzogiorno dell’8 settembre 2011