Ci sono frasi celebri, o parole, o detti proverbiali dei quali sarebbe il caso non appropriarsi, non metterci il proprio marchio, fare in modo che continuino a circolare liberi perché, per molti versi, appartengono all’umanità, alla sensibilità comune e perfino alla tradizione di un popolo. Così, quando Berlusconi decise di chiamare il suo partito “Forza Italia”, ci fu la sollevazione sdegnata di una metà degli italiani mentre l’altra metà, beatamente, continuò a dormire (e non si è ancora svegliata). “Forza Italia” era un modo di incitare che rappresentava un patrimonio linguistico e gergale dei tifosi della nostra nazionale di calcio, delle squadre di pallacanestro e pallavolo, della scherma e della pallanuoto. La cosa buffa fu che perfino i telecronisti della Rai non pronunciarono più le due paroline per non essere accusati di faziosità o, peggio, di essere berlusconiani. La stessa cosa sta succedendo a noi personalmente di persona da quando il Fatto Quotidiano ha deciso di chiamare la sua web-tv “È la stampa bellezza”. Avremmo voluto intitolare questo post come la celeberrima frase di Humphrey Bogart, ma non lo faremo perché ci accuserebbero immediatamente non di aver copiato Richard Brooks, che scrisse la sceneggiatura e diresse ”L'ultima minaccia” (“Deadline”), ma Marco Travaglio il che, se permettete, non rientra fra le nostre più intime ambizioni. Abituati a un tipo di giornalismo antico, quello che non fa sconti a nessuno, ogni volta che abbiamo creduto opportuno citare la frase di Ed Hutcheson, ci siamo sempre premurati di terminarla correttamente aggiungendo quel “E tu non puoi farci niente” che risultava, alla fine, essere maggiormente esplicativo di quella che poteva apparire solo una battuta anche se ricca di senso. Era il 1952, e a quasi 60 anni di distanza i politici non hanno ancora capito che, in molti casi, “non possono farci niente”. Almeno in apparenza. Accade così che se diciamo che Silvio è un birichino, che Calderoli vive su una palma, che Bossi sproloquia, che Tremonti è un evasore fiscale che viola pure le leggi che s’inventa e promulga, siamo dei bravi giornalisti mentre, se proviamo a chiedere conto a Penati dei movimenti di denaro sui conti correnti della sua associazione, a D’Alema del mancato conflitto di interessi, a Veltroni di Calearo, a Vendola del perché il suo “addio al compagno” e a Beppe Grillo del pericoloso qualunquismo d’accatto che lo contraddistingue da un po’, siamo dei bastardi filo-berlusconiani. Se non fosse altamente schizofrenico, e non ci facesse guardare malissimo da qualche amico del Pd, dai compagni di Sel e da qualche fan sfegatato di Grillo con il quale fino a ieri prendevamo il caffè, potremmo dire che vedersi colti con le dita nella marmellata non fa piacere a nessuno (specie se si reputa furbo) e che essere criticati sui fatti e non sull’ultimo taglio di capelli, rappresenta quasi un delitto di lesa maestà. Il berlusconismo, oltre a tutti i disastri che ha combinato in venti anni di potere assoluto, ha modificato radicalmente il concetto della “libertà di critica”. Radicalizzando lo scontro politico, Silvio è riuscito a dividere gli italiani in due distinte categorie, quelli che sono con lui e quelli che sono contro di lui. Ha tolto i mezzitoni, la possibilità di muovere critiche e appunti, per cui se il Senato approva il “processo lungo”, che gli consentirà di arrivare alla prescrizione dei suoi processi senza colpo ferire, e qualcuno prova a dire che è una porcata, si becca dell’antidemocratico perché quella legge è per tutti non solo per Silvio. Allo stesso modo, se un giornalista non a libro paga prova a chiedere conto a Bersani a che punto è la “questione morale” nel suo partito, corre il rischio di beccarsi una class-action da parte degli iscritti al Pd lesi nell’onore. C’è qualcosa che non va. E quello che non va è che i colleghi a libro paga o liberi servi, o servi e basta, hanno stravolto le regole del nostro mestiere preferendo soldi facili e subito ad una sana gavetta da “necrologista” di ultima pagina, in attesa del servizio di dieci righe che il caporedattore ti assegnava quando si rendeva conto che eri pronto. Oggi lecchi un po’ il culo a vai a dirigere il Tg1. Abituati ormai da anni a confrontarsi più che con i giornali con i fogli di partito, i politici della sinistra amerebbero che ci fosse anche una macchina del fango “rossa”, un apparato quasi spionistico che si comportasse con Belpietro come Feltri si comportò con Boffo, senza tenere conto che Belpietro, notoriamente, si offende abbondantemente da solo. Fra la destra e la sinistra sembra sia in atto una specie di corsa alla disinformazione che viene vinta da quello che riesce a sputtanare di più l’altro senza tenere conto che sputtanare è una cosa, distruggere una vita o una carriera un’altra. E che se uno prova a far notare che nei rispettivi “santuari” forse c’è qualcosa che non va, viene tacciato di disfattista, fascista, rivoluzionario, qualunquista e grande figlio di puttana manco fosse una canzone di Lucio Dalla. Il senso di “fare informazione” oggi, per la destra e la sinistra, lo ha dato Ferruccio Sansa in un articolo che compare sul Fatto (noi citiamo sempre le fonti, spesso sono gli altri che non citano noi, ma ubi major...) nel quale scrive: “L’arroganza del centrodestra, seppur più violenta, non pretende di essere ‘giusta’, ha lo scopo manifesto di metterti a tacere. Il centrosinistra è diverso: si sente investito di una missione, chi osa metterlo in discussione è ‘disonesto’, ‘in mala fede’, ‘vendicativo’, ‘scorretto’”. Questa è la sintesi che dovrebbe chiudere l’assunto: “È la stampa bellezza. La stampa. E tu non puoi farci niente...niente”, ma non è mica così.
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