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Non è vero, ma ci credo!

Creato il 11 maggio 2014 da Francosenia

Xavier Miseracs Barcelona 1964

Se si legge il breve pezzo di Matthew Yglesias, “Where do profits come from? The obscure feud that tears left-of-center economics apart", si viene a scoprire come ci sia in atto una discussione a proposito del fallimento, da parte dell'economia neoclassica, a fornire una valida alternativa all'affermazione fatta da Marx a proposito del fatto che il lavoro sia la fonte tanto dei salari quanto dei profitti. L'incapacità, da parte dei borghesi, invero un po' coglioni, a trovare quest'inesistente alternativa, ha dato risultato piuttosto bizzarri: "Gli economisti eterodossi sostengono che ci sia un meccanismo circolare, cioè che i profitti conseguiti dai proprietari di capitale sarebbero determinati dalla produttività marginale del capitale, e che, perciò, per calcolarne la quantità [dei profitti] bisognerebbe chiedersi quanto sia proficuo possedere i beni strumentali."
La teoria del valore dice che i profitti sono semplicemente quella porzione di valore creato in eccesso, rispetto al valore dei salari dei lavoratori, mentre, invece, la teoria economica dominante, cosiddetta ‘mainstream’,  sostiene che i profitti sono il risultato della produttività marginale del capitale.
Bisogna chiarire che la teoria economica dominante ha già concesso alla teoria del valore che il lavoro è la fonte di tutti i profitti. Non importa quanto questo argomento venga offuscato nel gergo dell'economia neoclassica, è stato dimostrato, sia teoricamente che praticamente, che c'è solo una fonte sia per i salari che per i profitti, e questa fonte è il lavoro del lavoratore.
Come sottolinea Yglesias: "Gli economisti 'mainstream' hanno fatto un po' di tentativi di rifiutare questo concetto, prima di concludere che, essenzialmente, era corretto. E questo è, infatti, uno dei motivi per cui gli economisti eterodossi spesso sembrano amareggiati. I 'mainstream' concedono loro questo punto, ma tendono a negarne l'importanza." Per restare sul sicuro, gli economisti 'mainstream' concedono che sia un errore sostenere che il capitale (macchine, pianeta, materie prime) possa essere fonte di valore, ma affermano che però tutto questo non è significativo. Krugman, per esempio, ha recentemente dichiarato:"[Niente], circa la teoria della produttività marginale, dipende dall'esatta verità di una semplice funzione aggregata della produzione." Insomma, Krugman sostiene che anche se il lavoro è l'unica fonte di valore, in pratica possiamo comportarci come se non lo fosse, e possiamo benissimo assumere che il capitale sia una fonte di valore indipendente!!!
In altre parole, la questione non concerne il fatto se la teoria del valore sia corretta a proposito della fonte del profitto, ma riguarda il perché Krugman e i suoi colleghi possono comportarsi, in pratica, come se invece non lo fosse. Perché, coglioni come Krugman, insistono sul fatto che il loro errore non abbia importanza? Ecco perché: le persone possono sostenere quanto vogliono che il capitale non sia la fonte del profitto, ma empiricamente le cose appaiono invece come se lo sia! Anche i lavoratori credono che sia il capitale a produrre il proprio profitto, al lavoratore la propria attività appare, empiricamente, come se essa fosse l'attività del capitale, non l'attività del lavoratore.
Un argomento del genere spinto al suo limite estremo, il più assurdo, ci dice che tutta l'economia potrebbe benissimo venire automatizzato. La FIAT potrebbe realizzare enormi profitti sulle auto, anche se nessuno avesse i soldi per comprarle; potremmo avere, da una parte, il 100% di disoccupazione, e dall'altra il 100% di profitti. Ovviamente, Krugman ci dice che le cose non devono arrivare a questo limite assurdo. Ma chi lo dice che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di merci che continua a diminuire, non arrivi mai a zero? E pur non arrivando proprio allo zero, la sua riduzione, se questa riduzione dovesse avvenire in quantità non trascurabile, potrebbe questo portare al crollo del capitalismo? Tanto per fare un esempio americano, la forza lavoro impegnata in agricoltura oggi ammonta a circa lo 0,5% dell'intera forza lavoro occupata; che è come dire che una persona occupata in agricoltura nutre sé stesso e la sua famiglia, oltre a duecento o più altri lavoratori occupati in altri settori, insieme alle loro famiglie, più tutti quelli inabili al lavoro, più, ancora, tutte le esportazioni alimentari fatte dagli Stati Uniti. Se la domanda totale del lavoro produttivo dovesse scendere, tutta insieme, a questo trascurabile 0,5%, questo porterebbe al crollo del capitalismo?

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La "Critica del Valore" (WertKritik) afferma che questo è assolutamente possibile, e non solo: il capitalismo ha già raggiunto questo limite. In un'intervista, rilasciata nel 2010 (On the Current Global Economic Crisis: Questions and Answers), Robert Kurz spiega come la costante diminuzione della domanda di lavoro abbia portato ad una sempre maggiore richiesta di plusvalore sotto forma di credito, e presto o tardi questa espansione del credito, nell'economia, dovrà essere svalutata: "Quella che è arrivata a compimento, è una secolare, immanente contraddizione della valorizzazione del capitale, che può essere rappresentata in due distinte fasi. Inizialmente, lo sviluppo delle forze produttive, come risultato della necessità di competizione, ha portato ad una rapida crescita sproporzionata del capitale fisso in rapporto alla forza lavoro in forza del carattere sempre più scientifico della produzione. Per poter impiegare ogni singolo lavoratore per la produzione di capitale, si rende necessario ricorrere ad un'aggregazione di capitale reale in costante aumento. Come risultato, i costi "morti" anticipati per la valorizzazione del capitale si incrementano ad un tale livello da rendere impossibile il finanziamento di tali costi da parte del profitto generato (le macchine trasferiscono solo il valore precedentemente generato; non generano nuovo valore). Il risultato di tutto questo è stata un'espansione storica del sistema di credito che ha velocemente abbracciato tutti i settori (le aziende, lo Stato, i nuclei familiari privati). Sempre più spesso, si è reso necessario basarsi sul plusvalore futuro (sotto forma di credito) al fine di avere la capacità di generare plusvalore attuale. Questa contraddizione rimaneva sostenibile fino a quando tali crediti potevano venire ripagati per mezzo di un sempre più eccedente plusvalore produttivo. Tale meccanismo di compensazione, ad ogni modo, è effettivamente sparito con l'inizio della terza rivoluzione industriale (microelettronica) alla fine degli anni 1970 - la forza lavoro che aveva generato il plusvalore effettivo, in questa nuova dimensione storica gradualmente razionalizzata fuori dall'esistenza. Come risultato, le catene di crediti, destinate a crescere in modo esponenziale nel futuro, minacciavano di rompersi, e in effetti questo è avvenuto in un certo numero di settori. Non è accidentale, quindi, che il principio della terza rivoluzione industriale abbia coinciso con l'inizio di tutta una serie di crisi finanziarie, economiche e valutarie, di cui oggi stiamo vivendo il culmine."

In sostanza, Kurz sostiene che i capitalisti, a causa della sempre più crescente composizione organica del capitale, sono stati costretti, per valorizzare il loro capitale, ad accedere a dei prestiti che dovrebbero onorare con i futuri profitti che, a loro volta, continueranno a svalutarsi in misura sempre maggiore, costringendoli ad accedere a nuovi crediti. Game over!


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