Il guaio è che il “ministro” Poletti non possiamo nemmeno esportalo, confezionarlo quale personaggio centrale di una serie come House of Card, perché non rappresenta la cinica astuzia del potere, ma la sguaiataggine politica più modesta, l’essenza di un circolo di mentecatti di provincia che ha in mano il Paese. L’idea di raddoppiare il numero delle assunzioni a tempo determinato (che ormai significano poco o nulla dal punto di vista della stabilità reale) per vantare i successi del governo e dare l’idea di un’aumento dell’occupazione, è quanto di più rozzo si possa immaginare non tanto per l’enormità della bugia, quanto per il fatto che essa è stata spacciata agli italiani troppo a ridosso dell’arrivo di dati più realistici e assai meno rosei.
Forse sperava che gli stessi media adoranti rispetto ai numeri truccati avrebbero tamponato la verità e in effetti il tentativo di minimizzare in prima botta l’ “errore umano” c’è stato, ma la cosa era troppo sporca per non deflagrare. L’impressione è che il ministro adotti con gli italiani la stessa allegra e sconcia malizia paesana delle cene con Buzzi o delle pugnalate alle spalle ai compagni delle coop. Ma alla fine egli ha usato in maniera grossolana e simmetrica al sentire del governo di cui fa parte, uno strumento che è divenuto ormai universale: la menzogna attraverso la statistica.
C’è una vasta letteratura, a cominciare dagli anni 70 che mette in guardia contro i guasti di ciò che si presenta come scienza ed è invece numerologia politica. La matematica, strumento principe della statistica, non è un’opinione e questo basta alle opinioni pubbliche per far coincidere numeri con verità. Ma non è quasi mai così perché il calcolo anche più corretto è comunque il risultato di scelte, di campionature, di procedimenti tutt’altro che neutrali: essa è essenziale alla conoscenza della società, ma finisce troppo spesso per restituisce solo l’elaborazione di input che vengono da una visione della società. E mai come oggi la bugia si nasconde dietro ciò che psicologicamente conferisce certezza.
Si possono catalogare cinque livelli di menzogna statistica e alcuni di questi non implicano nemmeno errori o una precisa volontà di manipolare la realtà da parte di chi pianifica ed elabora i dati:
Il primo e più importante a livello di sistema è la messa a punto di modelli nazionali e internazionali con cui vengono raccolti e sistematizzati dati che sono più funzionali agli interessi politici e ideologici che a una rappresentazione numerica del reale. Per esempio la composizione dei vari “panieri” e il metodo con cui si attribuisce un “peso” ai singoli beni presenti riflette spesso la volontà di minimizzare l’inflazione ( e dunque la caduta reale dei salari) o i problemi abitativi e nei Paesi occidentali aderisce a una logica mercatistica piuttosto che sociale. Così per quanto possa parere assurdo, la variazione dei prezzi degli smartphone pesa molto più di quella delle locazioni per la ragione che l’80% della popolazione possiede un telefonino evoluto, mentre solo il 20% vive in affitto. Oppure possiamo riferirci alle scelte fatte per stabilire i livelli di povertà assoluta e relativa o ai criteri con cui viene calcolata la disoccupazione riferendosi esclusivamente a chi si iscrive alle apposite liste o ancora, a livello macroeconomico, ai recenti interventi sul Pil per inserirvi voci che implicano stime aggiustabili a seconda dei casi e cercare così di interrompere la recessione tecnica di gran parte dei Paesi europei. A questi errori di fondo che sono poi “visioni del mondo” l’unico rimedio è solo imporre una nuova egemonia culturale.
Il secondo modo, a mezza strada tra la scelta tecnica e l’input politico, questa volta più circoscritto, come per esempio nei sondaggi elettorali o nel calcolo del pil per abitante e del reddito si può scegliere la media aritmetica o armonica o ponderata. La terza è ovviamente quella che si avvicina più alla realtà, la prima invece minimizza le disuguaglianze e la seconda è quella che dovrebbe adottare un ipotetico governo di sinistra perché esalta le posizioni numericamente più importanti, ossia quelli dei redditi bassi o medi. Le cose sono ovviamente più complesse, ma la sostanza è che queste scelte, anche se corrette con i percentili sono funzionali a restituire una realtà che corrisponde a un modo di vedere le cose. Lo stesso si può dire della formazione dei campioni e della loro correttezza: su questi ci sarebbe da scrivere molte pagine, ma di fatto chi si trova davanti a un sondaggio non ha mai le informazioni necessarie per farsi un’dea della sua attendibilità. Quasi sempre ci si trova di fronte a campioni estremamente ridotti, talvolta pericolosamente vicini al rischio di essere più piccoli dell’errore statistico la cui significatività, per quanto sofisticati siano i metodi correttivi, viene ulteriormente ridotta dal fatto che un 20 o 30 per cento delle persone del campione non risponde affatto mandando all’aria il senso stesso della rappresentatività. Questo effetto è usato spesso in maniera intenzionale per determinare un certo risultato.
Al terzo posto ci sono i veri e propri errori materiali che sono inevitabili nonostante l’informatizzazione dei sistemi e a parametri invisibili nascosti nel cuore dei calcoli.. Talvolta si tratta però di errori intenzionali, come è capitato negli anni scorsi per alcune ricerche economiche fondanti le teorie liberiste. Un errore dei fogli di calcolo, si disse per salvare la faccia ai valorosi fantaccini della lotta di classe al contrario.
Poi ci sono le menzogne che riguardano l’uso mediatico della statistica, per esempio la creazione di grafici che essendo magari fuori scala danno visivamente un’idea diversa dai numeri effettivi. Oppure ci sono le tattiche di consenso. Per esempio sono ormai anni che in Usa si lanciano mirabolanti cifre trimestrali sul pil o sull’occupazione che nell’immediato influenzano le opinioni politiche e le borse, ma poi vengono corrette a distanza di qualche mese, quando non fanno più notizia. Una categoria alla quale appartengono anche le sparate governative alla Poletti, se non fossero così goffe e grossolane da ottenere l’effetto contrario.
Infine la quinta fonte di inganno siamo proprio noi che spesso abbiamo una percezione sbagliata delle cifre anche a causa del fatto che non pretendiamo che l’informazione invece di riportale in forma bruta le spieghi: quando mai sappiamo se un determinato pil è reale o nominale o standardizzata, quando mai pretendiamo di sapere se un determinata percentuale si riferisce alla quantità o al valore che cambia enormemente le cose e ci soffermiamo così poco sui numeri da essere vittime dei più disparati bias: per esempio se leggiamo che in una certa città c’è stato un aumento del numero di arresti infallibilmente riteniamo che si tratti di un centro insicuro, mentre può essere benissimo che sia migliorata l’efficienza delle forze dell’ordine e che la città in questione abbia un tasso criminale decisamente inferiore ad altre. Scambiare il tasso di crescita con la realtà esistente è uno degli errori più comuni.
Tutto questo insieme viene però considerato come certezza indiscutibile tanto che proprio un clamoroso errore di misurazione e di percezione errata è stato all’origine della bolla delle dot com. A metà degli anni ’90 uscì una statistica secondo cui l’uso di internet cresceva del 15% ogni mese provocando un’ondata di investimenti nel settore che poi si rivelarono privi di senso. Incredibilmente quel 15% era stato interpretato come crescita degli utenti e non come era dell’uso globale della rete. Anche così le cose non funzionavamo, la statistica era sbagliata, basata su dati carenti e interpretati con criteri sbagliati, ma divenne una realtà prima di trasformarsi in fallimento. Esattamente come i dati di Poletti, il ministro che non lascia e raddoppia e del suo premier.
*Per approfondire il tema con una lettura facile è divertente, non tecnica ma rigorosa si potrebbe leggere Mentire con le statistiche un libro di Darrel Huff ormai mitico, tradotto in italiano solo nel 2005.