La trama è fantascientifica, ma come in tutti i grandi libri di fantascienza si allude ad una condizione umana presente o non così lontana. I protagonisti sono dei giovani "cloni", creati in provetta per produrre organi di ricambio agli umani "veri". La verità emerge lentamente, mentre si racconta dell'infanzia e dell'adolescenza (età le cui descrizioni - se magistrali come quella di Ishiguro - di per sé evocano sempre incanto, stupore e nostalgia) di tre di loro.
A ospitarli è un singolare istituto, con altrettanto singolari docenti e una direttrice del cui ruolo si capirà solo alla fine l'importanza. Quando i tre giovani crescono, vanno verso il loro destino senza tentare di scansarlo, docili e rassegnati alla missione per cui sono stati creati; anche se l'istinto alla vita e soprattutto all'amore è in loro altrettanto naturale e vero che negli umani, da cui di fatto nulla li differenzia.
Scoprire casualmente che è in uscita il film tratto dal romanzo ha riportato in me tutte le sensazioni provate mentre leggevo. Non credo proprio che andrò a vederlo, potrei piangere straziata per tutta la durata della pellicola. Soprattutto dopo aver letto un'intervista all'autore, che ha rivelato di aver descritto nel libro una metafora della condizione umana: "Il film è triste perché è una metafora della condizione di tutti... Al pubblico che si chiede: che senso ha vivere così, io rispondo: che senso ha vivere in generale, allora."
Eppure il libro è bellissimo e se il film sapesse minimamente ricreare qualcosa di altrettanto vero e umano varrebbe la pena di essere visto.