C’era un tempo,negli anni ’70, in cui le riviste femminili pubblicavano racconti. Una delle firme più amate era Brunella Gasperini della quale ho ritrovato, in un vecchio cassetto di mia madre, questo racconto. Non so da quale rivista sia stato ritagliato perché non ci sono indicazioni, ma solo le pagine,da 257 a 273 e l’illustrazione che lo precedeva. Una delle caratteristiche della scrittura della Gasperini era l’ironia che non manca neppure in questa storia.
NON METTETE L’OLIO AL CANCELLO
Racconto di Brunella Gasperini
È vero. Non sono una di loro. Ho lasciato troppe cose quaggiù, compreso il mio cuore, tutto intero. Credo che sia per quello che loro mi hanno dato questa specie di vacanza: perché venissi a riprendere il mio cuore per portarlo Lassù, a diventare come il loro: immutabile e sereno e fatto d’aria, come il loro. Ma io non lo riprenderò, il mio cuore. Non gliel’ho detto per paura di perdermi la mia vacanza, ma il mio cuore resterà sempre attaccato alla terra e alle cose e alle creature che ho amato: sempre. Io non sarò mai come loro.
“Adesso va” dice la Voce. “Ma quando la luna sorgerà, dovrai tornare.”
Va bene, va bene, ho capito, me l’hanno già detto Là: quando sorgerà la luna, dovrò tornare. Ma adesso il sole brilla, vedo sotto di me il mio piccolo vecchio lago, la mia piccola vecchia casa, e il mio cuore è là che mi aspetta. C’è tempo, per la luna… La Voce mi saluta, con la sua dolce distaccata pietà, e io sono sola. Sola col mio lago, la mia casa e il mio cuore. Mi vedete? Sono tornata.
Su questo lago ho passato tutte le mie estati, tutte quante, da che son nata fino a quel giorno. In questo lago ho imparato a nuotare e a pescare piccoli immangiabili pesci iridescenti; davanti a quella punta ventosa, dopo il torrente, a quindici anni mi sono rovesciata con la barca la vela il timone i pesci e tutto; su quelle roccette cespugliose là in fondo ho raccolto cestate di more; e in quella casetta rossa (quella piccola, vedete?, con le persiane sbiadite e l’arco della darsena che pare una allegra bocca spalancata) ho dormito tutti i miei sonni estivi, cullata dal parlottio della barca che si dondolava di sotto, legata all’anello. E il molo davanti alla darsena? Avete mai visto un più poetico, paziente vecchio molo? con le sue braccia aperte verso il lago e il suo bravo faro di pietra in mezzo, che non ha mai avuto una lampada in vita sua? Su quel molo, le sere d’agosto, ci si distende con le mani sotto la nuca a guardare le stelle cadenti. Ogni stella che cade un desiderio: la pietra del molo è ruvida e calda, le voci rimbalzano sommesse sull’acqua, si sente nell’aria il profumo dell’olea fragrans, e il cielo è lì sopra, quieto e pieno di stelle. È proprio qui, su questo molo, in una sera d’agosto, che Renzo mi ha baciato la prima volta. Avevo diciotto anni, lui ventuno, il vecchio faro ci guardava. Quante stelle cadevano, quella sera.
Adesso c’è il sole. Non so che ora sia, ma da come brilla il lago, in tante piccole onde irregolari, capisco che la brezza si è appena levata: deve essere mattina. Le persiane della casa, sopra la darsena, sono ancora chiuse: mattina presto; dunque.
Infatti il giardino è ancora vuoto: i rami sono tutti vivi di uccelli, e le cicale non si sentono ancora. L’ombra della magnolia non è ancora arrivata al prato, e le mie rose gialle, vicino al pozzo, sono gonfie e dritte: deve essere la fine di giugno, o il principio di luglio. Me ne vado in giro per i viali ed è strano non sentire la ghiaia scricchiolare sotto i miei passi. Toccare una rosa e vederla rimanere immobile. Ciao rose, ciao alberi, ciao ghiaia, sono qui. Ma non mi sentono.
Qualcuno sta entrando: riconosco la voce petulante e stonata del vecchio cancello. “Domani ci metto l’olio” diceva la Barborin. “Se tu metti l’olio al cancello” le dicevo “io metto l’olio a te. A te piace parlare? Bene, anche al cancello piace. E a me piace sentirlo.” Lei scuoteva la testa. “Matta sei nata e matta morirai” diceva. Così è stato.
Eccola lì, la Barborin! È lei che sta entrando: con la sua faccia scontrosa, il suo scialletto, la cesta sul braccio. Tale e quale. Solo un po’ più grigia. Ciao, Barborin! Mi aspetto di vederla voltarsi e brontolare: ” Ah sei lì, strampalata?”. Invece niente. Sicuro; non mi vede e non mi sente. Richiude il cancello che strilla di nuovo, rauco e soddisfatto. Non ce lo hai messo l’olio, Barborin… Io non c’ero più a impedirtelo, ma tu non ce lo hai messo.
S’incammina verso la casa e vedo che zoppica. La sua famosa sciatica. Che saltava fuori solo quando qualcuno la guardava. Ma adesso nessuno la guarda; eppure zoppica come non l’ho mai vista zoppicare. Le vado dietro fino in casa. È brutto non poterle portare il cesto.
Entra in cucina, appoggia tutto sul tavolo, si lascia cadere su una sedia e sbuffa. Barborin, sei vecchia… perché nessuno ti aiuta?
«Uffa» borbotta. Parla sempre da sola, la Barborin. «Gesù Gesù che vita.» Si alza, aggrappandosi al tavolo, e va a staccare un foglietto dal calendario. Ha sempre avuto la passione dei calendari, diceva che se non c’era lei col suo calendario, io non avrei mai saputo che giorno era né che mese e forse neppure che anno. Il che era pressappoco vero. Specialmente d’estate, qui alla “Darsena”, io sapevo solo, di sicuro, quando era sabato: perché al sabato arrivava Renzo, e io sentivo il sabato dentro di me fin da quando mi svegliavo al mattino sopra l’allegro brontolio della darsena.
Guardo la data di questo giorno terreno: sabato (lo sapevo che era sabato), 7 luglio 19… Dunque sono passati quasi due anni da quel giorno. Dio santo, due anni! Renzo, cos’hai fatto in tutto questo tempo?
«Le nove meno un quarto» bofonchia la Barborin, alzando gli occhi all’orologio. «Potrebbero essere qui tra un paio d’ore…»
Potrebbero, ha detto. Chi? Uno è Renzo, ma gli altri chi sono?
«Se almeno riuscissi a tenere un po’ d’ordine in casa fino a quell’ora… Si sa che è la prima impressione che conta. Se una entra in casa e ci trova dentro la baraonda…»
Se una entra in casa… Ha detto una. Chi è questa “una” che viene in casa mia? Forse una nuova donna di servizio, un aiuto per la Barborin. Ma certo, che stupida, certo che è così.
«Ma va’ un po’ a parlare di ordine a quei tre strampalati.»
Qui non c’è da sbagliarsi: se la Barborin parla di strampalati, o si tratta di me o si tratta dei miei figli.
«Disordine e matteria» sentenzia disgustata, tirando fuori i pacchi dal cesto. «Sempre stato così. Come fa una povera vecchia a starci dietro ? Con quei tre in gara a portar dentro sassi e pesci morti e canne di bambù da cavar gli occhi alla gente. E a dimenticare tutto dappertutto. E con un sacco di idee bislacche in testa, tali e quali alla loro mamma, che Dio le perdoni.»
Che Dio mi perdoni. Che mi perdoni tutto il disordine e le matterìe e le canne di bambù della mia gaia, dolce vita terrena. E mi perdoni, anche, la terribile gioia che provo in questo momento. Voi che vivete non sapete cosa vuol dire essere morti e sentir dire che i vostri bambini sono tali e quali a voi. È come ridiventare vivi. Vivi, e felici, e quasi onnipotenti. Che Dio mi perdoni.
Adesso vorrei volare di sopra a vederli, subito, subito. È quello che voglio fare fin dal primo momento, fin da quando la Voce mi ha detto: “Adesso va’…”. Ma prima avevo paura, vedete, avevo troppa paura di trovarli cambiati. Adesso non ho più paura, e volo. Sono già sulla porta, quando la voce della Barborin, che ricomincia il soliloquio, mi tiene ferma nel raggio di sole che entra dal giardino:
«Quella povera signorina in mezzo ai selvaggi… Le verrà paura, povera anima. Una signorina così ammodo».
Una signorina ammodo… in casa mia! Barborin, cosa stai tramando? Ha sempre avuto la fissa delle persone ammodo, la Barborin. “Tu non sei una ragazza ammodo. Le ragazze ammodo non scavalcano i cancelli. Le signore ammodo non si arrampicano sugli alberi. Le signore ammodo non parlano con le cose. Le signore ammodo…”
Va bene, non ero ammodo. Ero disordinata e un po’ matta e parlavo con le cose. Ma tu non mi volevi bene lo stesso, Barborin? E Renzo, e i miei figli?
A un tratto la Barborin alza la testa e si mette a parlare forte; con un ‘aria aggressiva, come se si rivolgesse a qualcuno di ben definito.
«Non si può andare avanti in questo modo! Una padrona ci vuole, qua dentro. Io sono vecchia, e le ragazze a servizio non ci stanno. Le ragazze d’adesso, figurati. Con tre bambini scatenati come quelli… Io sono vecchia. Ho la sciatica e i reumatismi e il mal di cuore. Non ce la faccio più. Una padrona ci vuole, ti dico.»
Adesso so con chi sta parlando. Sta parlando con me. Come se mi vedesse. Solo che non mi vede, e se le rispondo non mi sente. Brutta cosa esser morti. Sono sempre ferma nel raggio di sole, non riesco più a muovermi.
«È tanto una brava signorina» continua ostinata la Barborin, ma adesso sembra che stia convincendo se stessa. «Proprio quella che ci vorrebbe per noi. E adesso finalmente il signor Renzo la porta qui a conoscere i bambini…»
Qui. Nella mia casa. Nel mio giardino. Dai miei bambini. La signorina ammodo! Barborin, sei una brutta vecchiaccia.
«E anche il signor Renzo, povero ragazzo, non poteva mica continuare così» dice la Barborin, sottovoce.
Renzo, non potevi? Non mi sento più né viva né felice né onnipotente.
«Sarebbe una benedizione, se la sposasse!» Ed è la Barborin che dice questo… La mia vecchia balia. «È una signorina tanto buona, tanto ammodo…». E dàlli. Odio la gente ammodo. «Ha ventotto anni, un’ età giusta, e insegna il latino nelle scuole» conclude rispettosamente la Barborin.
Pfff! Una professoressa. Già me l’immagino. Avrà gli occhiali. Vorrà mettere tutto in ordine e parlerà nel naso e comanderà a bacchetta. E farà mettere l’olio al cancello. Oh, no che non lo farà! Non farà niente di tutto questo, Barborin, te lo dico io. Renzo non può voler bene a una così. A una che insegna il latino. A una ammodo. A nessun’altra. Barborin, cosa vuoi sapere tu? Sei solo una vecchia stupida con la sciatica e il nervoso, e non capisci niente.
Ma io capisco. La sistemo io, quella del latino. Sta’ un” po’ a vedere, Barborin, come te la sistemo.
Mi sento di colpo molto allegra. Allegra e scatenata, come una volta.
«Gesù, le nove!» geme la Barborin. «E ho ancora tutto da fare.» Prende una scopa e batte col manico sul soffitto. Tum-tum (che vuoI dire: sveglia), tum-tum-tum (che vuoI dire: alzarsi subito). Faceva così anche prima: le scale le pesavano già allora. Ma a me non pesano. Non mi pesavano prima, perché le mie gambe erano giovani, svelte e allegre. E adesso non c’è più niente che pesi: tutto è fatto d’aria. Tutto tranne il mio cuore. È il mio cuore che vola di sopra a vederli.
Sono uguali. Un po’ più grandi, ma uguali. Giorgio, Berto e Pop. I miei bambini. I miei figli. Vorrei che poteste provare, solo per un momento, quello che sto provando io. Ma voi siete vivi, non potete.
Si stanno lavando, alloro solito modo: due gocce sugli occhi, una goccia sul naso, una goccia sul mento, una strofinatina e via. E le orecchie, messeri, e le orecchie?
Tornano verso il lavabo, come se mi avessero sentito. Ma è così! Non posso abbracciarli, arruffare i loro capelli, tirare i loro corti nasi, ma loro mi sentono. Non sanno che son qui, non mi vedono, ma sono i miei figli, e mi sentono. E mentre li vedo mettere le loro due brave gocce d’acqua nelle orecchie, mi sento di nuovo onnipotente.
E così continuo a sentirmi mentre li guardo lavarsi i denti (a Pop mancano due incisivi davanti: ha già sei anni), e mentre li guardo vestirsi (è Giorgio che allaccia i sandali a Pop: ha già dieci anni), e mentre li ascolto parlare di pesci e pietre focaie e bambù, e Berto racconta una storia di creature lunari che ha letto ieri (l’ha letta… ha già otto anni), e li sento dire tante cose strampalate che solo io posso capire, perché io sono loro e loro sono me, e non mi importa – quasi – di non poterli chiudere tra le mie braccia, mai più.
Scendo con loro, a rotta di collo giù per le scale, verso la colazione. Si buttano sulla cioccolata e sul pane come in Qualsiasi altra mattina della loro vita e della mia.
«Ecco come vi siete vestiti!» dice la Barborin. (lo sono alle sue spalle e soffio, soffio nella sua vecchia testa ignara.) «Vi avevo detto di cambiare la canottiera emettere i calzoncini puliti e i sandali belli! Lo sapete che viene quella signorina col papà.»
Pop apre la bocca sdentata, piena di cioccolata e di pane: «E a lei cosa ce ne importa dei nostri sandali ?»
«Gliene importa sicuro» dice la Barborin. «Non vuole mica vedere dei bambini così conciati.»
«E allora che vada a vederne degli altri» dice Giorgio«Ce n’è tanti di bambini.»
«Ma lei vuole stare con voi» supplica la Barborin. «Vuole curarvi, e…»
«A noi non ci interessa che ci curi» dice Berto. «Non è mica la mamìzzola.»
Mamìzzola: quanto tempo che non mi sento chiamare così.
La Barborin ha voltato via la testa. «No, sicuro» dice piano con voce malferma come le sue mani. Ma io le giro intorno e soffio, soffio nella sua testa confusa, perché sbagli di nuovo… finché lei torna a voltarsi, con le mani sui fianchi:
«Ma potrebbe diventarlo!» annuncia imperiosamente.
Ciao Barborin, sei fritta. «Potrebbe diventare come un’altra mamma.»
Quattro occhi neri come i miei (Giorgio e Pop) e due occhi grigi come quelli di Renzo (Berto) si alzano su di lei. In silenzio. O Giorgio, Berto, Pop… non posso guardarvi. Sono viva e felice e onnipotente, ma non posso guardarvi, in questo momento.
La fissano e non parlano. Poi c’è un gran rumore di sedie, e subito dopo sono fuori in giardino, si buttano nei loro giochi come forsennati. La Barborin è lì ferma che si strofina le mani nel grembiule. «Gesù» borbotta, col magone. «Gesù Gesù che vita.»
Vorrei aiutarti a sparecchiare, Barborin. Non te lo meriti; ma vorrei lo stesso.
La lascio lì e me ne vado fuori coi miei figli. La ghiaia scricchiola sotto i loro sandali, le voci note traversano l’aria verde e oro del mattino di luglio. Le cicale si sono messe a cantare e io comincio a sentire il sabato dentro di me. Quando arriva Renzo?
Arriva alle undici passate – l’ombra della magnolia ha raggiunto il pozzo – e i bambini corrono ad aprire il cancello al richiamo noto del clacson. Po-po-pot, popopot… La giardinetta grigia – è ancora lei – entra e percorre il viale grande fino in fondo, inseguita dai tre selvaggi armati di canne di bambù. Si ferma, e il mio cuore si ferma con lei.
Renzo, sei tu. I tuoi occhi grigi, la tua vecchia giacca, la tua gola scura. Sei stanco. Lavori sempre tanto? Sono sicura che il bassetto ti ha fatto arrabbiare. (Il bassetto è il direttore generale, e l’ho chiamato io così, perché è piccolo, tirchio e bisbetico come un nano maligno.) Al diavolo il bassetto, il lavoro e i soldi… Adesso sei qui.
Solleva i bambini a grappolo, come sempre, con tutte le loro zampe sporche e le loro canne accecanti, e il suo sorriso è sempre quello. Poi li mette giù, alza la testa e guarda la magnolia.
Per voi quel gesto e quello sguardo non sono niente. “Ha guardato la magnolia” voi dite. Ma su quella magnolia, proprio là in cima, vedete, io l’ho aspettato tutti i sabati di tutte le nostre estati. Da là in cima vedevo arrivare la giardinetta, io per prima, da là in cima io salutavo, io per prima, sporgendo dai rami la mia giovane faccia e le mie giovani braccia felici.
Ecco perché lui guarda lassù, adesso. Non guarda la magnolia. Cerca quella lontana Gigìn. E non la trova. Renzo, sono qui, a un passo… Ma non mi vede.
«Questa è Marisa» lo sento dire. «Aveva voglia di conoscervi.»
Solo adesso mi accorgo di quell’altra. Eccola li, la signorina ammodo. Quella del latino. Non ha gli occhiali. Ha una faccia chiara e liscia, i capelli chiari e lisci, tutto chiaro e liscio. Non è mica brutta… Però io ero molto più carina. Questa qui è insipida. Non può piacere a Renzo, una così insipida. Non può. Escluso. È solo la Barborin che gli mette le idee in testa.
«Buongiorno» dice l’insipida ai bambini. Non parla nel naso: anche la voce è chiara. Ma senza sugo.
Loro, zitti, la guardano. Io sto dietro di loro. Sono miei.
«Questo è Giorgio» dice Renzo. «Questo è Berto, e questo è Pop. Date la mano.»
Loro danno la mano, senza parlare. Duri come bastoni.
«Sono un po’ selvaggi» dice Renzo con una risatina sforzata. Renzo, per piacere, non ridere così, non sembri tu. «E molto sporchi, anche» dice.
«Oh, be’,» dice l’insipida, volonterosa «un po’ di sapone e la sporcizia è bella e sistemata.»
Ai vostri figli piace il sapone? Be’, ai miei no. La guardano e non dicono niente, ma io leggo nei loro pensieri trasparenti: “Sporcizia sarà lei. Si lavi lei, col sapone”.
Sento che mi divertirò. E mi diverto, infatti: moltissimo. Questa Marisa non ne imbrocca una (io le sto alle spalle quando parla), Renzo è stanco e taciturno (il bassetto doveva essere in gran forma, questa settimana), i bambini sono pestiferi (non c’è neanche bisogno di influenzarli, loro sono me) e tutto va per storto che è una bellezza. Lo so che sono un’anima e che le anime non dovrebbero ridacchiare così. Non sono ammodo neanche come mamma, io.
Si avvicina l’ora di colazione, e per una vecchia abitudine (sempre fiori del giardino sulla nostra tavola), Pop annuncia:
«Vado io a cattare i fiori». «Non si dice cattare» corregge la professoressa. «Si dice cogliere».
Pop le dà una lunga, pensosa occhiata: «Tu li cogli» stabilisce. «io li catto». E via.
Giorgio e Berto ridono, e anche a Renzo viene voglia di ridere: me ne accorgo benissimo. E forse anche quella là se ne accorge, perché diventa un po’ rossa, e le luccicano gli occhi. È bellina, così… Ma Renzo non la sta guardando. Diventa rossa finché ti pare, oca di una professoressa ammodo. Tanto a lui non gliene importa niente. È mio, non vedi ? Sono dodici anni che è mio, e lo sarà sempre. Guardati intorno, intrusa. Guarda la magnolia e il pozzo e le mie rose gialle, guarda il lago e il molo e il faro che fa la guardia ai nostri sogni. Senti cosa ti dicono? Vattene, ti dicono. Non c’è posto per te, qui. Vattene, intrusa.
Ma questa non li vuol sentire. Non capisce niente, questa qui.
Vanno a tavola, e non vi dico. Avete mai visto dei mao-mao seduti a una tavola europea? Bene, quelli sono i miei figli. E i discorsi… State a sentire:
Berto (rivolto a Pop): Lo sai cosa sono i trifidi?
Pop (a bocca piena) : Io no. Cosa sono, Berto?
Berto: Sono delle piante astrali con le gambe, che vanno in giro.
Marisa: Oh, mio Dio.
Berto: E oltre alle gambe hanno una specie di bocca in cima, e dentro questa bocca hanno una lingua velenosa e con questa lingua velenosa pungono le persone antipatiche (occhiata a Marisa) e le persone antipatiche muoiono in convulsioni.
Barborin : O Gesù.
Marisa: Ma dove… dove imparate questi orrori?
Giorgio (con distacco): Non sono orrori. È fantascienza.
Berto (inesorabile): E dopo che le persone antipatiche sono morte, i trifidi si fermano li, e aspettano. E quando le persone antipatiche sono ben putrefatte, allora i trifidi le mangIano.
Marisa (smette di mangiare l’arrosto).
Barborin: Gesù.
Giorgio (sospirando): Ma i trifidi verranno solo nel duemila.
Pop (speranzoso): Però in fondo potrebbero venire anche prima, vero, Giorgio?
Giorgio: Forse. (Occhiata generale alla professoressa, che è di nuovo rossa e con quegli occhi lucidi, ma Renzo non la guarda.)
Nessuno parla più, tranne qualche «Gesù» della Barborin, e il pasto finisce. Allora decidono di andare in barca (cioè, sono io che decido per loro, e so bene il perché).
Il vecchio canotto borbotta dolcemente al nostro apparire. Ciao, Domokos, vecchio lupo di lago. Se mi chiedete perché il nostro canotto si chiama Domokos, non ve lo saprei dire. S’è sempre chiamato così, fin dai tempi del bisnonno garibaldino, e mi pare che c’entri una battaglia in qualche parte della Grecia, ma non m’importa molto. A voi importa? Il Domokos è il Domokos, il nostro canotto, e noi non gli abbiamo mai chiesto la carta d’identità. Ma lei, l’insipida, vuole sapere il perché e il percome. Perché si chiama Domokos, che cos’era Domokos, chi è stato a chiamarlo Domokos, ecc.
«Tu perché ti chiami Marisa?» chiede Pop, e il tono fa capire che mentre Domokos è un bellissimo nome, pieno di vento e di onde, per un bellissimo canotto, Marisa è uno stupidissimo nome per una stupidissima donna. Senza vento né onde. Marisa si volta verso Renzo, come a chiedere aiuto, ma Renzo non la guarda. Sta guardando verso prua.
E anche questo a voi non dice niente. “Sta guardando la prua” voi dite. Ma su quella prua, io stavo seduta durante le nostre lunghe pazze bordate, a bermi il vento egli spruzzi, e Renzo stava al timone e c’era tra noi il riflesso del lago e dell’avventura e dell’amore.
Adesso è Giorgio che sta al timone. E a prua non c’è nessuno che Renzo possa vedere.
La breva è fortissima a quest’ora, il Domokos salta come un vecchio delfino ubriaco, entra acqua da tutte le parti, e la professoressa ha il mal di mare, anche se non lo dice. Ma tutti lo sanno benissimo. A ogni virata lei chiude gli occhi, finché Renzo dice, brusco:
«Torniamo a riva, si balla troppo». «Sì, papà» dicono i tre, delusi. E guardano Marisa.
E anche dopo, tutto continua così: io sono sempre dietro a Marisa, a mandarle tutto storto. So che non è giusto. Ma mi è così difficile essere un’anima. Marisa non sa più cosa dire, e appena dice qualcosa sbaglia, e i bambini la guardano in un modo che sembrano tre trifidi anticipati al 1900; la Barborin continua a dire «Gesù», l’aria è carica di elettricità nascosta (sono sempre stata elettrica, io) e Renzo è sempre più taciturno e nervoso. Non riesco a vedere i suoi pensieri. Perché non ci riesco? Ma non fa niente. Vedo i suoi occhi e la sua bocca e la sua vecchia giacca e non m ‘importa -quasi – di non poter schiacciare la faccia contro la sua gola. Basta guardarlo, ed è come avere diciotto anni, ed essere fuori sul molo col profumo dell’olea fragrans e le stelle cadenti. Ogni stella un desiderio… E si sono avverati tutti, miracolosamente tutti, fino a quel giorno.
È a quel giorno che pensi, Renzo? A quello stupido vecchio albero marcio da cui caddi ? Non pensarci. Pensa a tutte le nostre stelle cadenti avverate: non bastano a riempire dieci vite?
Oh, il sole! Se n’è andato. È tramontato adesso, dietro la cima del Bolgia. Il vento cala di colpo, e il lago è tutto quieto, verde e triste. Le cicale hanno smesso di cantare.
Presto verrà giù l’aria della valle e poi sorgerà la luna. “Quando la luna sorgerà, dovrai tornare.” Come corre il tempo, quaggiù.
È l’ora di cena. Vanno a tavola di nuovo, sotto il portico, e tutto va avanti pressappoco come a colazione, solo un po’ peggio. Sempre un po’ peggio, finché arrivano le nocciole (del giardino) a portare la crisi risolutiva. Sì perché le nocciole sono quasi tutte guaste o bucate o vuote, e Marisa chiede:
«Ma come mai ?» «Sono i ghiri» dicono, soddisfatti, Giorgio, Berto e Pop.
«I ghiri?» chiede Marisa allarmata. Sembra che parli di immonde serpi. «Ci sono i ghiri ?»
«Sicuro!» dicono i tre. «La: soffitta è la loro casa, i noccioli il loro giardino, e le nocciole sono il loro mangiare.» Voci e facce sono piene di orgogliosa complicità. Perché i ghiri sono nostri amici, da sempre. Avete mai visto un ghiro? È il più delizioso piccolo animale che ci sia, con un allegro piccolo muso e una grande morbida coda veloce, che ti guarda tra i rami, attaccato alle foglie con le zampine davanti, e ammicca con due occhietti, furbissimi: “Grazie delle nocciole. Squik!”.
«lo credevo» dice Marisa «che i ghiri fossero come grossi topi che dormono sempre.»
Pfff! Senti, professoressa, tu saprai il latino, ma non parlare di ghiri – dei nostri ghiri.
«Dormire?» dice Giorgio. «Svegli come diavoli, sono. Quando giocano e fanno le feste in soffitta, di notte, svegliano tutti, quei matti.»
«E sono furbi, ma furrrrbi!» dice Berto. «Come accidenti. Non solo si mangiano le nocciole, ma giocano con le nostre tegole, le spostano di qua e di là, e così quando piove, splash! giù tutta l’acqua in stanza della Barborin.»
«E loro a ridere e a fare capriole» dice Pop elettrizzato.
«Un bel guaio» dice la professoressa (io le sto alle spalle). «Ma ci sarà pure modo di eliminare Queste bestie, no?»
C’è un momento di profondissimo silenzio. La Barborin fa smorfie e piccoli gesti disperati con le mani, ma è troppo tardi. Piena di sacro zelo -e sobillata da me -lei va avanti:
«Con il grano avvelenato, per esempio! Come per i topi, no? Vi insegno io. Ne spargiamo un po’ in soffitta, e in un paio di giorni…»
Forse dovrei ridere. Invece non ci riesco. Giorgio, Berto e Pop si sono alzati, e non sembrano più trifidi. Sembrano tre piccoli, pallidi uomini furenti.
«Papà, mandala via!» grida Pop con la sua bocca sdentata. «Vuole ammazzarci i ghiri! Mandala via, papà!»
È come quando Balilla lanciò il primo sasso, vedete. Adesso urlano tutti e tre, ciechi esordi e impazziti (proprio come me quando mi arrabbiavo) e io mi metto a urlare follemente con loro, anche se nessuno mi sente. Vattene! Via di qui! Vattene, vattene, vattene, intrusa!
Lei non è più rossa. È molto bianca, adesso. Sta lì, smorta e muta, senza difendersi, finché Renzo sbatte il tovagliolo sul tavolo e tuona:
«Andate di sopra, tutti e tre! Via, filate! E che non vi veda per un pezzo.»
Loro si azzittiscono di colpo. Non sono abituati a questa brutta voce. Giorgio slaccia il bavaglino di Pop e lo mette sul tavolo. Poi tutti e tre se ne vanno, Pop nel mezzo, dritti e silenziosi con le loro tre piccole schiene infelici. Renzo, ma li lasci andar via così?
«Mi dispiace» dice Marisa. È sempre pallida. Le tremano le labbra, è bella… Non guardarla, Renzo. È un’intrusa. Pensa a loro e a me e ai ghiri e a noi… Ecco, così: lo vedo dalla faccia, che ci pensi. La tua faccia mia.
«Tu non puoi capire» dice con una voce secca, ingoiata. «Non è colpa di nessuno. Scusali. Scusami. Vado di sopra un momento.» Volta le spalle e va.
Ho vinto. Lei rimane lì sola con la Barborin, che comincia a sparecchiare, zoppicando. «Gesù» dice. «O Gesù benedetto.» Anche la voce zoppica.
Marisa si alza e comincia a sparecchiare con lei, semplicemente, come se lo avesse sempre fatto.
«Io… io non ho mai visto un ghiro» la sento dire con una voce infelice. «Credevo che fossero come grossi topi. lo… pensavo alle nocciole.» Anche la sua faccia è infelice.
Cosa mi succede? Sono sempre la stessa. Sempre lì ad avere pietà di tutti.
«È andato tutto così male» dice. «Tutto al contrario di quello che volevo… Pareva che ci fosse qualcosa dentro di me che… non so. Pensavo una cosa e me ne veniva fuori un’altra… stupida e brutta. Io non sono così! Non capisco cosa m’è preso. Io non sono un’intrusa! So che non posso prendere il suo posto… ma gli voglio bene e volevo aiutarlo e voler bene con lui ai suoi bambini. Io voglio bene ai bambini. E i bambini vogliono bene a me, di solito. E invece proprio questi… proprio questi che sono i suoi, questi tre poveri bambini senza mamma…» Si interrompe, e vedo le sue lacrime. Quiete e silenziose vengono giù per le sue guance senza che lei le asciughi. «lo non volevo prendere il suo posto» ripete desolata. «Volevo solo un mio posto accanto a loro. E invece ho sbagliato tutto. Ho perduto tutto non so perché, ma certo è stata colpa mia.»
«Non è stata colpa sua» dice la Barborin. E a un tratto si volta verso il mio angolo, come se mi vedesse. So che non mi vede: eppure mi sento come quando ero piccola e ne combinavo qualcuna e volevo farla franca, e la Barborin mi veniva davanti e diceva: “Guardami un po’ in faccia, Gigìn! Lo So che sei stata tu, cosa credi? Sei una cattiva bambina. Vergogna, Gigìn”.
Non sono più una bambina, adesso. Sono un’anima. Un’anima che ama il suo uomo e i suoi figli con la gioia e la passione e la ferocia di una donna viva. Un’anima strampalata e gelosa. “Vergogna, Gigìn.”
Quando ero una bambina, potevo piangere, per la vergogna. Ma adesso sono un’anima, non posso. Posso solo andare fuori nel mio giardino tutto buio e fresco, e sentirmi terribilmente viva e terribilmente morta. L ‘aria della valle fruscia dolcemente tra i noccioli, l’acqua nella darsena parlotta con la chiglia del Domokos, e il vecchio faro senza lampada mi guarda. “Vergogna, Gigìn.”
Qualcosa mi chiama dall’alto. È la luce delle finestre che filtra dalle persiane chiuse, e chiama… Perché chiama? Passo attraverso quella luce, e li vedo.
Renzo è in piedi sul nostro balconcino, la pipa in bocca, gli occhi fissi sul lago. So che mi chiama, e non posso rispondere. Se il vostro uomo vi chiama e voi non potete rispondere, allora vuoI dire che siete veramente morte.
Ma non è solo lui che chiama. C’è un’altra voce nella stanza vicina, mozza e affannosa: è Pop che piange. Sta seduto sulla sua cuccetta, stravolto e sussultante e così piccolo, e mi chiama. Pop, sono qui… Ma non mi sente. Non ho braccia per stringerlo, né labbra per baciarlo, né voce per dire il suo caro piccolo nome: sono morta.
Berto e Giorgio gli stanno vicino senza dir niente, così uguali con la faccia stirata per la fatica di essere grandi e non piangere, ma il loro pensiero è lì davanti a me, chiaro e lancinante: “Mamma mamìzzola, torna indietro”.
Ma non posso tornare. Io che li ho messi al mondo, che ho dato loro il mio latte e il mio amore e il mio respiro, io non posso consolarli: mai più.
E adesso so che preferirei essere morta del tutto, anche nel loro cuore, morta e finita e dimenticata, piuttosto che amata e rimpianta così. Questo non lo sopporto.
Adesso so. So che le Anime mi hanno mandato qui perché capissi questo. So quello che devo fare. La luna non è spuntata, sono ancora in tempo.
Marisa è ferma davanti al cancelletto del lago, sola; La vedo bene, adesso. Non è la loro mamma, ma ha un cuore tenero, e voce e braccia vive per loro.. Le vado vicino, senza che lei lo sappia, e la prendo per mano.
È stato facile. Lei aveva avuto solo un giorno per capirli, io tutta la vita: è stato facile insegnarle la strada in una sera. Facile, bello e molto triste. Sono diventata un’anima ammodo, Barborin, sei contenta?
La luna sta per spuntare. Vedo già l’orlo di luce bianca dietro la montagna nera. La mia vacanza sta per finire, e mi sento già così lontana, esclusa.
Sotto i noccioli c’è un parlottare sommesso, e la luce della pila che fruga tra i rami.
«Eccolo, eccone uno!» bisbiglia la voce di Pop. «Lo vedi, Marisa? Ti sta proprio guardando.»
«Che muso furbo! E che zampe piccole… E io che volevo sterminarli! Credi che mi avranno sentito, Pop?»
Pop riflette. «Non aveva mai visto un ghiro» la giustifica poi, rivolto ai rami.
«No,» dice Marisa dolcemente «non ne avevo mai visti. Ho un sacco di cose da imparare, da voi. Dovete insegnarmi a pescare, a riconoscere le pietre focaie, a cattare i fiori… Forse anche ad arrampicarmi sugli alberi.» «No» dice Renzo sottovoce. «Sugli alberi no.»
C’è un momento di silenzio, e in quel silenzio io e loro vediamo quel vecchio albero del Bolgia, e me stessa stesa di sotto, con le braccia aperte: una ragazza che cantava e rideva e parlava con le cose e amava il suo uomo e i suoi figli, e mordeva la vita golosamente, come un frutto – e che è morta. “Una signora ammodo non si arrampica sugli alberi…” Avevi ragione, Barborin. Ma era uno stupido vecchio albero marcio. Non pensateci più.
Dal silenzio nasce di nuovo la voce di Marisa, un po’ tremula: «Ma se imparerò bene tutte quelle cose, voi in compenso mi terrete lontani i trifidi, eh?».
Ridono. È bello sentirli ridere: anche senza di me. Lei riuscirà a consolarli: è dolce, è buona, è anche gaia. Ma soprattutto, è viva.
Posso anche andarmene, adesso. Il mio posto non è più qui. Addio, cari. Non mettete l’olio al cancello, per piacere… Addio.
Il cielo è tutto bianco di luna.
Sei qui? dice la Voce che m’aspetta. Sei stata brava. Sì, sono stata brava. Voi non sapete quanto.
Non vuoi voltarti a salutarli una volta? chiede la Voce d’aria.
No, non voglio voltarmi. È già così faticoso il mio cammino… Non voglio voltarmi -mai più.
Ascolta, dice la Voce. Non senti niente? Fermati, e ascolta…
Mi fermo: senza voltarmi. E attraverso la fragile aria lunare qualcosa mi raggiunge, sussurra intorno a me. «Mamma mamìzzola, oggi è venuta una che si chiama Marisa e prima era antipatica e dopo era simpatica, e noi prima siamo stati cattivi e dopo siamo stati bravi e abbiamo guardato i ghiri tutti insieme. Ce n’ era tutta una famiglia. E forse Marisa resterà con noi e allora noi le insegneremo tutte le tue cose e ti vorremo sempre tanto bene. Proteggici per piacere e facci pescare tanti pesci domani. Buonanotte, così sia.» È la preghiera di Pop.
Allora mi volto. E li vedo – distesi al buio nelle loro cuccette, tutti e tre – scivolare placati nel sonno, senza più lacrime. Preghiere e sogni si confondono sopra le tre testoline scure, e in ogni preghiera e in ogni sogno io mi vedo: non più desiderio e dolore, ma ricordo, certezza e rifugio. Così sia.
Sul balcone della nostra stanza c’è un puntino rosso che palpita a intervalli. È Renzo che fuma e guarda giù: e lì sul molo nella fragile luce, ci sono le ombre di due ragazzi che contano le stelle cadenti, e il vecchio faro senza lampada li guarda. Sono i ricordi di Renzo.
Allora, finalmente, ogni affanno e ogni rimpianto scompare, e c’è soltanto amore: triste e infinito e puro. Grazie, miei cari. Tante e tante stelle cadranno ancora per voi. Ma le mie stelle cadenti saranno sempre lì – vive – dentro di voi: ricordo, certezza e rifugio, sempre.
“Hai capito, finalmente” dice la Voce che mi accompagna, e il grande Volto d’aria mi sorride. “Sei come noi, adesso.”
Sì, sono come Loro, adesso: e il faticoso cammino di ritorno diventa un largo, pacato volo attraverso il cielo. Tutto è grande, immutabile e sereno: anche il mio cuore.