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Non mettiamoci una pietra sopra

Da Albertocapece

Non mettiamoci una pietra sopraAnna Lombroso per il Simplicissimus

La fiduciosa inclinazione alla delega per non dire alla “consegna” che ostentano in molti, legittima per carità, si accompagna a una meno legittima inclinazione alla rimozione del passato. Come se esserci disfati – si fa per dire – del vergognoso tirannello comportasse la cancellazione oltre che dei suoi misfatti, di nostre complicità o acquiescenze. A ogni tentativo di ricostruire la scena e i tempi del delitto commesso contro il Paese, ogni volta che si adombra la possibilità di non eseguire scrupolosamente l’infame catalogo di propositi contenuti nella letterina degli infami, qualcuno risponde: ma quello è il passato, come se metterci una pietra sopra liquidasse espiazione o azione.
Come se discutere della possibilità, tanto per dirne una, che le forze politiche in Parlamento si facciano promotrici di raccomandazioni – che vengono dai loro elettori sia pure scontenti e molto preoccupati delle sorti dei diritti del lavoro, della destinazione dei cespiti di una patrimoniale che magari vorrebbero indirizzati in investimenti per la crescita o in forme di assicurazione dalla disoccupazione come suggerisce anche la Bce – rappresentasse uno scandaloso esercizio di “disturbo” nei confronti del manovratore.

Si vede che è diventato politicamente scorretto e inopportuno parlare del passato. E poco realistico e chimerico parlare del futuro, dico futuro vero, non quello degli spericolati hedge funds o dei futures o dei derivati.
A meno che non sia immediato e a termine come il governo tecnico o misto. Sarà un forma di scaramanzia, sarà che molti sono convinti come Woody Allen che è legittimo non preoccuparsi dei posteri, in fondo, dice, che cosa hanno fatto per noi?

O forse la preventiva rimozione del futuro è davvero una delle diavolerie del capitalismo finanziario che ha stravolto anche la dimensione temporale oltre spaziale del mondo, attribuendo il primato credito e alla finanza rispetto all’economia reale e avviando un meccanismo perverso in cui i debiti non si pagano mai, ma sono sistematicamente procrastinati. Una finanza che si autoespande senza limiti e regole, che si cerca di limitare con una massa formidabile di denaro immessa nel sistema e di promesse, senza che siano stati risolti i problemi di fondo.

Se a questa spirale aberrante che minaccia di precipitarci verso crisi sociali e conflitti politici devastanti si dovrebbe rispondere ristabilendo la funzione della moneta come strumento e non come fine dell’economia, come «norma» anziché «merce», allora è obbligatorio a cosa costituisce la ricchezza, a cosa possiamo e dobbiamo davvero rinunciare, a quali sono gli scopi, in attesa che venga il tempo nel quale come diceva Keynes, finita l’era disperata del profitto e dell’accumulazione parossistica, sapremo cosa è il bene e quali sono le “delizie della vita”.

Solo un visione del futuro, nostro e dei posteri più innocenti di noi può farci uscire dall’equivoco anteporre la distribuzione della ricchezza alla creazione della ricchezza.
La “perfetta tempesta economica” nella quale viviamo frastornati,confezionata in America dal governo più disegualitario che si possa immaginare e poi soffiata come un contagio nel resto del mondo ha come specificità la distribuzione di ricchezze inesistenti, un indebitamento delle famiglie e degli Stati, intollerabili rendite di posizione, in un tempo senza domani, immateriale e indefinibile come il gioco d’azzardo, come il rischio, come la paura.

Qualcuno di più acuto e competente di me è stato in questi giorni accusato di “finanzobia”, nemico della modernità, delle transazioni mondiali, perfino degli assegni. E anche io nel mio piccolo corro la stessa condanna: arcaici, poco pragmatici, visionari. È che il pericolo della transazioni è che diventino solo speculazioni, quello degli assegni è di essere a vuoto, e quello del troppo realismo è di condannarci a una vita senza speranza e senza utopia. Il tipo di vita che non persuade a rinunce e sacrifici, perché la servitù mette il paraocchi, fa guardare in basso, persuade alla rinuncia, spegne la luce e abitua alle tenebre di un presente meschino.


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