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Non più solo (SB - cap.3)

Creato il 11 dicembre 2010 da Mcnab75
Non più solo (SB - cap.3)
Dec. 10th, 2010 at 10:18 PM

Un'altra settimana è passata dal precedente aggiornamento.

Ho moltissime cose da raccontarvi, cercherò di farlo con ordine, anche se è complicato razionalizzare tutto, come facevo un tempo.

Innanzitutto grazie per tutti i contributi sia sul mio blog che sui vostri. Mi fa piacere sapervi vivi, anche se alcune storie che ho letto mi hanno fatto venire i brividi. Cannibalismo, eserciti di sbandati, briganti con nomi da diavoli... roba che mi fa apprezzare la desolazione lunare dei luoghi in cui mi muovo da diversi mesi a questa parte. Valsassina, comasco e buona parte del lecchese sono praticamente spopolate. Forse più su, in alta montagna, esistono delle piccole comunità di superstiti meglio organizzate, ma ho sempre pensato che probabilmente non desiderano visite inopportune.

 

Dicevo. Il giorno dopo che vi ho scritto, qui ha iniziato a nevicare. Dapprima pochi fiocchi, poi precipitazioni più abbondanti. Sabato pomeriggio ce ne erano giù già venti centimetri. Dapprima ho festeggiato: neve e freddo avrebbero bloccato i Gialli per giorni. Nemmeno i misteriosi razziatori che hanno messo a ferro e fuoco l'Isola Comacina si sarebbero arrischiati su strade così conciate. Poi però le precipitazioni sono continuate per ore, alternandosi anche per tutta domenica, quando i centimetri sono diventati cinquanta. Infine ha smesso, ma di fatto ero già bloccato nell'agriturismo. La Wrangler, per quanto ottima come fuoristrada, avrebbe avuto seri problemi a muoversi in condizioni del genere. E poi io sono un autista da competizione. Così mi sono ripromesso di spalare il viale d'accesso, che scende fin giù sulla strada asfaltata. Il suddetto viale è in nuda terra e ghiaietto. Con la neve e il ghiaccio diventa davvero impraticabile. La notte di domenica sono tornato a spiare il panorama dalla finestra in cui si vede il lago, giù a valle. Ho osservato ancora la singola luce della sera precedente, ma su questo tornerò più tardi.

Lunedì mi sono messo a spalare di buona lena. Per fortuna nella stalla sono rimaste un paio di pale arrugginite, che comunque andavano bene per ciò che dovevo fare. La fatica si è rivelata improba. Dopo una mezz'oretta ero già stanco morto e sudato come un cammello, a dispetto del termometro che segnava appena due gradi. Per liberare il viale fin giù al cancello ho tirato mezzogiorno. È proprio quando sono arrivato al punto in cui il viale s'immette sulla strada che l'ho visto arrivare. Scendeva lungo la provinciale innevata, arrancando tra la neve. Era un uomo, trentacinque anni circa, vestito con una giacca beigé che un tempo doveva costare più di cinquecento euro. Ora però era stropicciata, con una manica staccata per metà, sporca di sangue secco all'altezza della spalla sinistra. Il Giallo zoppicava, come gli zombie nei film di Romero, ma al contempo si stringeva, in un gesto molto umano per cercare di di scaldarsi. Mi ha notato subito e ha alzato la testa, fiutandomi a distanza, come un cane. Era talmente giallo da sembrare un Simpson e tanto magro che ballava nella giacca. Ha cercato di correre verso di me, ruzzolando nella neve, per rialzarsi subito dopo, nel tentativo quasi comico di raggiungermi per squartarmi la giugulare.

 

Dieci metri ci separavano. In condizioni normali ce la saremmo giocata alla pari: la sua velocità animalesca contro la mia Glock 9 mm, unità alle sufficienti doti di tiratore dilettante. Un secondo per lasciare cadere la pala. Uno per togliermi il guanto dalla mano destra. Tre per estrarre la pistola dalla fondina legata alla cintura. Intanto il Giallo era arrivato a cinque metri e aveva deciso infine di proseguire a gattoni. Un secondo o poco meno per togliere la sicura. Ci siamo guardati negli occhi. I suoi erano itterici ed esprimevano solo fame. Gli ho sparato a colpo sicuro, in piena nuca. Esplosione netta, cervello sparso sulla neve. Poi ho vomitato. Che uomo, eh?

Poi mi sono accorto che la detonazione si era senz'altro sentita a centinaia di metri di raggio tutt'intorno a me. Sono tornato di corsa in casa, sbarrandomi dentro. Mi sono piazzato alla finestra del cesso al secondo piano, l'unica che permette una chiara visuale sul viale di accesso. Mi attendevo di tutto: altri Gialli, razziatori, cani selvaggi. Sono rimasto lì per tre ore, con la balestra Excalibur pronta: mirino montato e dardo in alluminio caricato. Non è arrivato niente e nessuno.

Nel pomeriggio sono tornato sulla strada e con la pala ho spinto il cadavere oltre il ciglio, per nasconderlo un po'. Ancora una volta non si vedeva anima viva, né in salita né in discesa. Comunque sia la giornata era rovinata, così mi sono chiuso in casa, avvolto nelle coperte, controllando se riprendeva a nevicare. Visto che il sole non si vedeva da nessuna parte ho risparmiato il fotovoltaico e mi sono dato alla lettura, finché filtrava un po' di chiarore dall'esterno.

Consumata la solita cena spiccia a base di scatolame (per fortuna non ho carne conservata dopo il 2014, anche se questa storia me la dovete spiegare) ho atteso l'accendersi della luce giù sulle sponde del lago. Immancabile, è tornata a farsi vedere. L'orologio segnava le otto e trenta, come nelle sere precedenti, quando quel puntino luminoso è comparso nel buio. Vi ho già scritto che sarà a circa quattro-cinque chilometri da qui, giusto? Per questo appare piccolo e confuso. Nemmeno col mio binocolo, che non è granché, riuscivo a scorgere qualche dettaglio in più. Morivo dalla voglia di andare a controllare, di giorno, col chiaro, ma allo stesso tempo avevo paura a muovermi.

 

Martedì, un giorno freddo ma senza neve, l'ho trascorso tra piccoli lavoretti per isolare la casa, piena di spifferi, e a scrutare il panorama giù verso il lago, nella speranza di scorgere qualche movimento diurno. Alla fine ho creduto di individuare l'area esatta da dove veniva la luce notturna, ossia una specie di torrione antico ma rimodernato, nel bel mezzo di un paese che le mie cartine identificano come Tremezzo. È l'edificio più alto, attiguo a una struttura di media grandezza, forse il palazzo del comune o qualcosa del genere. Peccato non poter vedere nulla di più, non col binocolo da quattro soldi che ho con me.

Giunta la sera mi si era oramai fissata un'idea in testa, un'idea pericolosa ma che volevo verificare. Ho atteso l'accendersi della luce, quindi ho acceso anche quella della stanza in cui ero appostato di vedetta. Non una sola volta, bensì in una sequenza precisa: tre lampeggi corti, tre lunghi e poi ancora tre corti. In pratica il segnale dell'S.O.S. nell'alfabeto Morse, che mi ricordavo fin da piccolo, quando leggevo giornaletti tematici dedicati all'avventura e all'esplorazione. Non ero nemmeno certo che da laggiù riuscissero a vedere l'agriturismo in cui sono rifugiato eppure, tempo un paio di minuti, e la luce del torrione di Tremezzo ha iniziato ad accendersi e spegnersi fino a comporre un messaggio complesso e per me incomprensibile. A quel punto mi sono sentito un vero idiota: avevo iniziato una conversazione senza sapere come portarla avanti. Ho acceso alla svelta il computer, sperando di riuscire a trovare una guida all'alfabeto Morse nonostante solo il 40% della Rete sia oramai funzionante. Ci ho messo una decina di minuti, ossia dieci volte tanto rispetto a quanto avrei impiegato ai bei tempi. Nel mentre il tizio del torrione ha ripetuto un'altra volta il suo messaggio.

Non avendo la prontezza per tentare una traduzione ho composto una mia risposta indipendente, corta e sgrammaticata: “Sono vivo. Poco Morse. Se può fatevi vedere di giorno.”

Il tizio (o i tizi) non hanno più replicato.

Ho trascorso la notte pieno di brutti pensieri. Quei sopravvissuti potevano essere dei predoni come quelli di cui leggo sui vostri blog: Belfagor, l'Armata, il Marchese o sa Dio chi. E io avevo appena segnalato loro la mia posizione precisa. Mi sono svegliato all'alba aspettandomi il peggio, invece tutt'intorno all'agriturismo il panorama era quello di sempre: morto. Mi sono affacciato alla finestra che dà giù a valle, con vista lago. Sul torrione incriminato non c'era nessuno. Ho preso una sedia, mi sono scaldato un caffé solubile (che oramai scarseggia) e ho atteso, avvolto nella coperta. Poco dopo le otto qualcuno è sbucato sul tetto, vicino all'antenna televisiva. Con mani tremanti ho alzato il binocolo, comunque troppo poco potente per farmi vedere da vicino il mio lontanissimo interlocutore. Ho potuto distinguerne il sesso (è un uomo) e pochissimi altri dettagli. Indossava un giubbotto imbottito e aveva i capelli scuri. Tutto qui. A differenza del sottoscritto, lui aveva un piccolo telescopio, senz'altro più potente del mio binocolo. Lo usava per guardare da questa parte. Allora ho spalancato la finestra e mi sono sbracciato. Anche lui ha fatto lo stesso, rispondendo al saluto.

Che situazione curiosa, eh? Il dislivello che ci separa annullava – in un certo senso – la distanza, ma per il resto era come se fossimo su pianeti diversi. Certo, potevo saltare sul fuoristrada e andare giù, ma la presenza di incontrare qualche Giallo nel bel mezzo del paese era più che una possibilità. L'idea mi è venuta all'improvviso: preso il pennarello nero dallo zaino ho scritto un messaggio sul lenzuolo bianco del mio letto, quindi l'ho sventolato fuori dalla finestra. Una richiesta semplice: « Parliamo stasera. Morse. Oggi imparo. Io sono Alex. »

Lo sconosciuto ha guardato col telescopio, e io ho atteso la sua reazione. Dapprima credo di averlo visto annuire, poi, per essere più chiaro, ha alzanto un braccio al cielo facendomi cenno che aveva capito.

Ho trascorso il resto del giorno a studiare l'alfabeto morse, copiato dallo stesso sito in cui l'avevo trovato la notte precedente. Il sole era ancora più un desiderio che altro, perciò ho risparmiato la poca energia rimasta nei pannelli, in attesa di ricaricarli. Bizzarro, vero? Quando tutto va bene possiamo scriverci da migliaia di chilometri di distanza, ma quando l'elettricità viene a mancare, dobbiamo di nuovo affidarci a mezzi di comunicazione vecchi di secoli.

Alle cinque era già buio pesto su tutta la vallata. L'ansia mi ha quasi impedito di mangiare, ma questo è un bene, visto le scarse razioni di cui dispongo. Sono stato io il primo a tentare un contatto, armeggiando con l'interruttore della luce. Ammetto di aver esordito con un banalissimo “ciao”.

Il mio interlocutore ha risposto quasi subito. Vi riporto la nostra breve conversazione, che ho trascritto subito dopo la chiacchierata con Manuel (questo è il suo nome).

Manuel: « Ci sono »

Alex: « Solo? »

Manuel: « In due. »

Alex: « Chi l'altro? »

Manuel: « Luigi. Anziano. »

Alex: « Gialli? »

Manuel: « Sì. Qualcuno. »

Alex: « Situazione cibo? »

Manuel: « Bene. »

A quel punto avevo già deciso che fare, al di là di tutte le titubanze dei mesi scorsi e l'isolazionismo forzato che mi aveva tenuto in vita a dispetto di ogni logica. Ho chiesto: « Vengo da voi. Domani. Posso? »

Manuel ha titubato solo un po', rivolgendosi forse al suo compare, che però non si vedeva, poi mi ha risposto. « Bene. Domani mattina. Indirizzo. » E, come prevedibile, mi ha dato l'indirizzo esatto del torrione. L'ho salutato confermandogli che ci saremmo visti l'indomani.

Mi chiederete: chi te lo fa fare? E anche: dove sono finiti i buoni propositi di evitare i guai? La risposta non la so. Vi posso solo dire che in questo momento vi sto scrivendo dalla stanza del torrione in cui Manuel e Luigi mi hanno ospitato.

 

La mattina seguente mi sono preparato all'escursione giù a Tremezzo, tentando di non pensare alle mille cose che potevano andare storte. I due potevano essere dei predoni (magari anche dei cannibali), oppure dei contagiati al primo stadio. Senza parlare delle strade ghiacciate e dei Gialli che mi sarei tirato addosso a dispetto del freddo. L'unica cosa certa è che non volevo più starmene solo. La solitudine funziona finché chiudi tutti gli spiragli e la sigilli verso il mondo esterno. Quando però apri anche solo uno spioncino tutto cambia. Infatti il desiderio di parlare con qualcuno, a voce, guardandolo in faccia, era oramai preponderante rispetto a tutto il resto.

Ho guidato al rallentatore, per evitare di finire fuori strada. La Wrangler è un ottimo veicolo, ma la neve è sempre una brutta bestia da affrontare. Ho comunque optato per tagliare attraverso le vie periferiche, senza raccordarmi con la Statale. La mia scelta è stata premiata, visto che non ho incontrato nessun infetto. Entrando in paese sapevo però che le cose sarebbero cambiate. Se non altro il buon vecchio navigatore mi avrebbe evitato giri inutili alla ricerca della strada giusta.

Tremezzo una volta era una delle tante perle affacciate sul lago di Como. Un borgo minuscolo, arricchito da un paio di sontuosi hotel, da una villa seicentesca e da scorci paesaggistici mozzafiato. Però la pandemia non ha risparmiato nemmeno questi posti da cartolina. Le vie caratteristiche del paese sono punteggiate qua e là da cadaveri mezzi sepolti dalla neve. Porte e finestre sono spalancate, se non addirittura abbattute. Auto e furgoni intasano alcuni incroci, forse a testimoniare un caotico tentativo di fuga, oppure come estrema barricata per isolare parti del borgo.

Il torrione che interessava a me è situato a pochi metri dalla darsena principale, dove tra l'altro sorge un albergo di lusso che un tempo attirava parecchi clienti danarosi. Si trova in una piazzetta deserta, tra una trattoria abbandonata e una casa d'epoca con vistose tracce di bruciature sui muri. A cinquanta metri dalla meta sono comparsi i primi Gialli. Li ho visti sbucare dai vicoli laterali, stretti e bui. Ne ho contati sette, forse otto, intirizziti dal freddo e lenti di conseguenza. Erano la solita miscela di miserie umane: due donne, di cui una vestita coi resti di una sorta di abito da sposta, diversi uomini, tra cui un ex vigile urbano (almeno a giudicare dall'uniforme lorda di vomito secco) e perfino un ragazzino. Hanno subito deviato verso di me. Con qualche grado centrigrado in più rispetto ai due che segnalava il termometro dell'auto mi sarebbero stati addosso in pochi secondi. Invece arrancavano, mezzi congelati e smagriti dalla fame. Ho portato la Wrangler vicino al porticato del torrione, dove c'era l'ingresso. Se Manuel mi stava aspettando, mi avrebbe aperto. Sennò? Sennò sarebbero stati cazzi amarissimi.

Sono sceso portando con me lo zaino e le armi. La paura era un blocco gelido nello stomaco, ma non potevo cedere al panico. Ho guardato la porta: chiusa. Il vigile urbano intanto si stava avvicinando troppo. L'ho visto leccarsi le labbra più volte, pregustando il sangue fresco. Il dardo della Excalibur l'ha centrato in pieno petto. Colpo netto (più netto del previsto), sufficiente per stenderlo. Poi qualcosa ha sbattuto contro il tettuccio della Wrangler: una scaletta metallica di emergenza. Manuel la reggeva sul balconcino del primo piano, dopo averla affrancata alla ringhiera in muratura. « Vieni su », mi ha detto in un italiano quasi perfetto (perché lui è filippino, come poi leggerete). Ho obbedito, con più fatica rispetto al previsto. In primis perché non sono agilissimo, poi perché il cofano del fuoristrada, a cui mi sono appoggiato, era scivoloso. Ho salito i gradini due alla volta, poi Manuel mi ha afferrato per un braccio, tirandomi su. Il tempo di ruzzolare malamente sul balcone e un vecchio con addosso una giacchetta da quattro soldi ha afferrato l'estremità bassa della scaletta. Per fortuna è bastato strattonarla per strapparla via dalle sue dita semicongelate.

« Dai che ce l'hai fatta », mi ha detto il filippino, sorridendo. E poi siamo entrati entrambi nel torrione.

 

Così è due giorni che son qui. Dove, mi chiedete? Ai bei tempi il torrione ospitava le mostre organizzate dal Comune e da altri enti locali. Ci sono tre piani e l'ultimo è una sorta di loft abitabile. Anche questo edificio è fornito di pannelli fotovoltaici sul tetto. L'antenna che vedevo da casa mia è quella del modem satellitare di cui dispongono i due computer della reception, al primo piano. Le finestre sono dotate di serrande metalliche e le due porte d'ingresso sono blindate. Nel seminterrato c'è un congelatore piuttosto grosso, in cui gli addetti al catering delle varie mostre organizzate qui piazzavano il cibo di volta in volta. Divani, divanetti e poltrone su cui riposare non mancano.

In qualche modo i due sono riusciti a stipare un buon numero di provviste, soprattutto scatolame, ma anche pasta, cibo liofilizzato e integratori alimentari prelevati dal loro vecchio rifugio. Hanno anche acqua, qualche bottiglia di vino e due fusti di birra, dieci litri in totale. Difettano però di carburante. Il loro furgone, parcheggiato sul retro, ha un'autonomia di soli cento chilometri, e nel seminterrato c'è una sola piccola tanica da dieci litri di benzina.

La cosa migliore della struttura è però la sala del secondo piano dedicata alla “mostra permanente sulla Resistenza”. Oltre a foto d'epoca, documenti, lettere e divise di partigiani comaschi, qui sono conservate alcune armi della Seconda Guerra Mondiale. Manuel e Luigi mi hanno mostrato due vecchi fucili Carcano modello 91 perfettamente funzionanti, così come un mitra MAB 38 e perfino uno Schmeisser tedesco, privo però di caricatori. Senza contare una manciata di vecchie baionette e una sciabola da ufficiale appartenuta a un carabiniere che ai tempi si schierò con la Resistenza.

Ma chi sono i miei due nuovi amici? Luigi ha 86 anni e la gamba destra semiparalizzata per colpa di una scheggia di granata che si beccò nel '45, quando a soli quindici anni combatteva coi partigiani. Peserà sì e no cinquanta chili, ma sa utilizzare il fucile con la precisione dei bei tempi. Manuel è il suo badante filippino. Pacato, riflessivo, dimostra più dei suoi 30 anni. Ha perso madre, sorella e fidanzata durante il “crollo di Como”, nel maggio del 2014. Ciò che gli rimane è Luigi. Si sono rifugiati per mesi nell'ospizio comasco abbandonato in cui il vecchio era stato scaricato dai due figli già nel '12. Lì hanno resistito per mesi, finché attorno alla città lariana sono cominciate a comparire delle bande paramilitari che battevano quartiere per quartiere, con calma e metodo. Una bella notte Manuel e Luigi sono saltati su uno dei furgoni della casa di riposo e sono fuggiti qui, dove il vecchio aveva trascorso buona parte della sua vita, lavorando come battelliere sul piroscafo Bisbino. Dio sa come se la son cavata. La scelta di barricarsi nel torrione si è rivelata vincente e la fortuna li ha assistiti quando dei Gialli li hanno attaccati di tanto in tanto. La fortuna e la buona mira di Luigi Linati, aggiungerei.

Quindi eccoci qui. A differenza dell'agriturismo che mi ha fatto da casa per qualche giorno, il torrione è più esposto. Basta guardare fuori di tanto in tanto per scorgere i Gialli che ancora vivono nelle rovine di Tremezzo, nascondendosi nelle case abbandonate, che abbandonano appena il clima si mitiga un po'. Loro sanno che siamo qua dentro. Il fatto di essere irraggiungibili li rende furiosi. Ce ne saranno, occhio e croce, una quarantina in totale, almeno a dire di Manuel che ha passato giorni e giorni a spiarli col telescopio. Oltre ai Gialli ha visto altre cose più interessanti. Visto e letto, su un sito internet che io non conoscevo affatto, al contrario di Manuel. Questo filippino la sa più lunga di quanto fa intendere la sua faccia serafica.

Ma adesso è tardi, ho scritto molto e Luigi mi ha chiesto di non abusare dell'elettricità, visto che il generatore fotovoltaico è spesso scarico, complice il maltempo. Vi aggiorno appena possibile. Ci sono molte, molte cose interessanti da dire.
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