Anna Lombroso per il Simplicissimus
Per quanti anni ci siamo consolati “con l’aglietto”persuasi che stare dalla parte della ragione condannasse alla marginalità, convinti che rappresentare sfruttati ed esclusi comportasse la pena di vivere in minoranza, certi della superiorità della condizione di eterni perdenti? Sembrava proprio che questo fosse il nostro codice genetico, la proverbiale “specialità” della sinistra e che questo destino fosse confermato dalla storia che dimostrava come l’accesso sia pure “democratico” al potere causasse la rinuncia, inesorabile e“realistica”, a valori e principi, l’abiura, necessaria e pragmatica, di tradizione, vocazione, mandato. E che l’esclusione finisse per essere l’unica forma e garanzia di lealtà a ideali e imperativi morali, inconciliabili con l’esposizione ai vizi del potere e con le responsabilità che ne derivano.
Abbiamo poi capito che il contagio toccava anche chi era provvisoriamente e/o casualmente contiguo, che i veleni del compromesso e della corruzione, del familismo e del clientelismo erano così forti da intridere la società, da condizionarla. E che sulla base di criteri assunti dall’aziendalismo ma affini ai comportamenti e alle modalità della criminalità organizzata, avveniva così anche la selezione del personale politico, secondo la pratica dell’affiliazione, dell’ubbidienza, della fidelizzazione, premiandole come qualità da preferire a talento, competenza, “beruf” e inclinazione a prestarsi in nome dell’interesse generale.
Beh se fosse vero che perdere è prerogativa della sinistra, allora oggi dovremmo pensare allegramente di essere un popolo di sinistra, visto che abbiamo conquistato di sederci dalla parte del torto come se fosse una vittoria. Mentre queste elezioni segnano la sconfitta, non solo meritatissima e desiderabile, delle cocorite del governo, non solo della partecipazione, già arresa di fronte a un susseguirsi di fotocopie di leggi elettorali pensate per vietarla, non solo della trasparenza, anche quella capitolata per ragion di stato, carità di patria, realpolitik. Ma anche del coraggio di dire no, non solo astenendosi, al voto col naso turato a suffragio del partito unico, quello della destra che ha vinto nelle sue varie declinazioni in 7 regioni su 7, quella esplicita e quella sotto falso nome di democrazia.
Così, nella fase del balletto della critica senza autocritica, del discolparsi e dell’accusare, del dire e contraddire: non sono elezioni rappresentative, non mettono in discussione l’azione di governo, anzi, sono espressione dell’autonomia della periferia dal governo centrale, quello di Palazzo Chigi e quello del Nazareno, è colpa dei scissionisti palesi o impliciti, di quel gruppo compatto «come un partito dentro un partito» che ha scelto di votare e far votare «contro riforme che il governo considera delle priorità», di rivendicazione dell’astensione come prova di maturità democratica e di appartenenza al contesto occidentale, non gli abbiamo insegnato niente, non siamo riusciti a dare una solenne lezione che gli metta davvero paura, non siamo riusciti a fare quel salto da malumore a opposizione, perché non so bene come abbiano votato insegnanti, precari, disoccupati e sottooccupati, operai e pensionati, quelli che non sono rimasti a casa e che hanno spalmato in giro il loro disappunto accidioso anche contro il loro stesso interesse. Mentre so bene come ha votato chi gravita intorno a quei circoli opachi, chi spera di trarre profitto dall’affiliazione e dal consenso, chi si augura di ricavare qualche elargizione anche di un bonus in sostituzione della riappropriazione di un diritto maturato, di 80 euro da restituire sotto forma di tassa, Imu, Tares, ticket. E so bene anche come ha votato chi si arrende perché teme l’impegno personale e collettivo intorno a qualcosa d’altro, preferendo la delega alla responsabilità, il solito noto al sorprendente e forse felice sconosciuto.
Vorrei consolarmi pensando all’ira a stento contenuta del bullo tradito dalla fortuna contro un pezzo dei democrat che tifava perché «perdessero il governo e il Pd», perché “queste sono le condizioni nelle quali ha dovuto giocare il mio Pd”, sconfinando nella semantica proprietaria cara al suo vecchio padrino impomatato, anche lui ormai persuaso che certi abbracci possono essere mortali e certi apparentamenti tossici. Vorrei consolarmi pensando che quei “militanti, quegli iscritti, quelli che generosamente si prestano a organizzare le feste dell’Unità” dei quali si ricorda solo ora e chiama in causa perché facciano fronte comune contro la riottosa opposizione, quelli che in questi mesi si sono presi pernacchie e fischi, glieli restituiscano con gli interessi.
Ma sappiamo per certo che i comandi cui deve attenersi, oltre al suo temperamento che combina ottusità e tracotanza, non gli farà cambiare strada, se ha scelto di imporre candidati destinati a fiaschi clamorosi a scopo dimostrativo e simbolico, per il suo clan, il suo governo, il suo Paese, se, in ossequio al neo imperialismo, si è incaricato di affondare la democrazia tramite cancellazione del lavoro, dell’istruzione, della partecipazione, della cittadinanza. E d’altra parte già stamattina, già stanotte, dopo il primo straniamento, stampa, opinionisti, osservatori sono concordi nel perpetuare la finzione secondo la quale esisterebbe una contrapposizione tra il centro destra, volgare, becero, corrotto, arcaico, e un centro sinistra, il suo, vitale di giovanile entusiasmo, che magari sbaglia per esuberanza, che magari esagera per passione, ma che ormai è insostituibile, mettendo in guardia i cittadini dalla tentazione di tradirne le aspettative, perché il rischio è l’esclusione dalla tavola dei grandi, che ci trattano come riottosi bambinacci, e l’inclusione nell’area velleitaria e avventurista dei meridionali, dei pigs svogliati, dissipati e scriteriati.
Oggi per l’ultima volta uso il pronome “noi”. Ma prendetelo come espediente letterario: non ho indulgenza nei confronti di chi si è collocato a vita nel ruolo di vittima, ma non ne vuol pagare le conseguenze. Non sono disillusa, ho smesso di esserlo da quando non mi illudo più. Ma sconsolata si, per questa tremenda condanna che ci infliggiamo a non “potere”ancora più evidente se la cittadinanza perde proprio nei contesti nei quali i territori potrebbero riappropriarsi del loro spazio di decisione e forza, se non “podemos” perché non “volemos”.