Molte volte mi capita di svegliarmi la mattina e, prima di iniziare qualsiasi cosa, di concedermi cinque minuti davanti allo specchio: ci sono quei giorni in cui ciò che vedo non si discosta poi così tanto dalle mie aspettative e altri in cui, invece, percepisco tutto il peso della mia persona. Non intendo solo i kg spicci misurati sulla bilancia meccanica, ma anche tutto il carico della mia interiorità e del mio personale vissuto. I miei occhi parlano, gonfi di preoccupazione, dolore e disillusione, sopra ad occhiaie degne di un pugile sconfitto sul ring. Sono un libro aperto, ogni millimetro del mio corpo trasuda sentimenti e stati d’animo: il tic della gamba è un riflesso incondizionato dovuto allo stress così come le smagliature sui fianchi evidenziano il mio altalenante rapporto col cibo. Qualsiasi parola otterrebbe un effetto molto meno immediato e diretto, è inutile che io parli, è necessario semplicemente che io mi immerga nel mondo per essere compresa. Diciamo che questo meccanismo funziona con tutti quei soggetti che io faccio rientrare nella categoria delle “anime combattute”, coloro non ancora abbastanza forti da affinare le loro doti ingannevoli. Non sono mai riuscita a nascondere il mio disagio agli altri o le mie preoccupazioni, per quanto mi sia esercitata negli anni con convincenti sorrisi di circostanza e con l’entusiasmo fittizio, un esercizio del tutto necessario in un mondo in cui le difficoltà purtroppo conducono alla solitudine. Questo avviene perché non si ha più voglia, in generale, di stare ad ascoltare, provare a comprendere chi ci è di fronte, chi ce lo fa fare? Insomma, se la mia vita è semplice, regolare e, a grandi linee, positiva e rilassante, perché mai dovrei intristirmi per gli altrui problemi; è molto meglio tapparsi orecchie, occhi e bocca, scacciando l’idea che prima o poi possa avere io bisogno di aiuto. La conseguenza diretta è che tutte quelle persone che non hanno ancora ricevuto la loro dose di fortuna debbano rintanarsi nel proprio isolamento, più o meno forzato: il dolore va così a braccetto con la solitudine. Non voglio nascondere a nessuno che questa sia esattamente la situazione che ho da poco dovuto affrontare: non ho trovato nessuno (ovviamente escludendo i miei genitori e la mia migliore amica che non finirò mai di ringraziare) al mio fianco, disposto a spalleggiarmi nella battaglia più difficile che io abbia mai intrapreso in vita mia e questo semplicemente perché avevano tutti paura, come se avessi potuto condividere il mio disagio, come se la mia malattia potesse attaccarsi maleficamente e portare tutti alla deriva con me. Ho scoperto però che, molto spesso, la solitudine non è una forma di debolezza e arresa, ma è forza allo stato puro: chi può dire di star bene con se stesso ha vinto in partenza e io sono uscita da un incubo, dal buio più profondo e totale, trasformandomi in un’eroina, una persona migliore di quella che ero in partenza.
E’ per tutto questo che io consiglio vivamente a coloro che, leggendo queste mie parole e riflessioni, abbiano provato una qualsiasi forma di empatia o comprensione di leggere “Il peso” di Liz Moore; le pagine sono occupate dai vissuti di due personaggi a parer mio meravigliosi, metafore di forza, coraggio, sensibilità ed amore incondizionato. Arthur Opp è un uomo di mezza età, relegato nella sua casa di Brooklyn, non solo per il suo “voto” di solitudine, ma anche per la sua imponente stazza, mentre Kel Keller è un ragazzino all’ultimo anno di liceo, costretto a fronteggiare un’esistenza troppo complicata ed ingiusta per la sua età. L’amore di una donna per il figlio e per il proprio passato porterà i due personaggi a fondere le loro solitudini un una splendida condivisione reciproca.
Ammetto di aver scritto, rileggendo, un post molto personale e forse poco interessante per chi mi legge per consigli puramente letterari, ma alle volte è necessario sfogare la propria amarezza per incontrare l’altrui sostegno e, in caso questo non avvenisse, anche solo una parentesi di sfogo, che non guasta mai.