Certo non è Umberto Eco. Sicuro che non è Philip Roth. Anzi è il racconto di una vita di un disturbato. Anche se geniale con una pallina e una misera racchetta - almeno all'inizio - di legno.
McEnroe si racconta, cercando di far comprendere al lettore quanto fosse - e sicuramente è ancora - completamente fuori dagli schemi, ma purtroppo, anche di testa.
Ma ahimè la testa non lo ha mai aiutato, nelle gesta sul campo e in quelle della vita di tutti i giorni. Combinando guai dentro e fuori.
Nonostante il successo, nonostante la fama, nonostante il denaro a fiumi, McEnroe è riuscito a costruirsi una vita scombinata, infarcita di fallimenti, di invidie, di tristezze.
Fino ai tempi nostri, in cui sembra aver ritrovato un po' di stabilità e serenità, tra moglie, figli, appartamenti a New York e tornei dei veterani.
Comunque, aldilà della scadente prova letteraria, rimane uno dei più grandi geni dei court tennistici di tutti i tempi. Un esempio stilistico e di inventiva che pochi sono riusciti a eguagliare.
Anche se figlio di un tennis che ormai non esiste più