6 febbraio 2014
Nella tavola calda dove abitualmente vado a pranzo c'è un uomo, quest'uomo è sulla sessantina, porta gli occhiali, è magro e ha un paio di baffetti altrettanto magri, baffetti grigi, ha i muscoli intorno alla bocca così smollati che la bocca assume una piega a becco d'anatra, quest'uomo - dicevo - pranza sempre insieme a un gruppetto di persone, suoi colleghi immagino, e mentre con una mano mangia, con l'altra tiene un tovagliolo attaccato al petto, a mo' di bavaglino, e insomma io me lo guardo in continuazione quest'uomo, me lo guardo con una turpe concentrazione, chiedendomi quanto dev'essere seccante mangiare tenendosi al contempo il tovagliolo stretto al petto per evitare che uno schizzo di sugo vada a imbrattare la camicia, non c'è nessuno in tutta la tavola calda che mangi in quel modo lì, non solo nella tavola calda, penso, ma in tutta la città, e in quest'epoca, non c'è un cane che mangi tenendosi con una mano il tovagliolo attaccato al petto, con quella mano penitenziale con cui sembra assumersi davanti a Dio la colpa per il cibo, come se avesse rubato quel cibo a un bambino malnutrito, non c'è un cristo che abbia un'espressione così pietosa mentre mangia in una tavola calda, un'espressione così remissiva che pare chiedere scusa a tutti i presenti per ogni boccone che si è guadagnato con il suo onesto, virtuoso lavoro, il lavoro con cui si ammazza da quarant'anni e che da quarant'anni gli storpia la fede in se stesso, la sua vita che non conosce altro modo di mangiare se non quello, la sua vita che è un perenne risarcimento offerto a qualcuno, così lo guardo come a volergli rubare qualcosa, qualcosa che si trova dentro e fuori la sua persona, qualcosa che sta nascosto dietro quel cazzo di tovagliolo che si preme al petto, qualcosa che sta dietro la sua onestà, dietro la sua vergogna, dietro la sua fiducia, ma non riesco a prendergli niente; non riesco a prendergli niente.