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Apprendo da Vita da Streghe l’esistenza di un’associazione di volontariato contro lo sfruttamento della prostituzione. La cosa mi fa tirare un sospiro di sollievo. Indignata e preoccupata dalla vicenda che grava attorno allo sfruttamento della prostituzione in Italia, dove le vittime passano per carnefici e dove le si sta negando ogni possibilità di salvarsi, ho scoperto questa bellissima iniziativa che viene da una donna coraggiosa, Ilaria Schirru.
Non si tratta è il suo nome. Nome che gioca su due significati. La tratta della prostituzione e l’argomento che appunto non si tratta..non se ne parla.
L’associazione è nata per aiutare le vittime di questa forma di violenza sulle donne che ancora oggi è intrisa di pregiudizi e tabù. Come lo sono tutti gli argomenti che riguardano la sessualità femminile. Queste sono alcune riflessioni sulla condizione sessuale delle donne di ieri ed oggi che si legano ad una cultura di negazione e di subordinazione:
“Durante il mio lavoro come operatore ho modificato molto la mia mentalità sul fenomeno della prostituzione - dice Ilaria - inizialmente ero molto chiusa, nel senso che mi sembrava solo una violenza indescrivibile, la negazione del sacrosanto diritto di ciascuna persona alla propria dignità sessuale. Piano piano però, rapportandomi a queste giovani donne, a chi ha scelto un’altra vita, a chi è ancora in strada, ho deciso di crescere e di trovare nuovi aproffondimenti per capire situazioni dalle quali culturalmente sono lontana anni luce e cercare nuovi spunti di riflessione“.
“Ogni volta che parlavo con qualcuno del mio lavoro di operatore di strada per un’associazione che offre assistenza alle ragazze straniere – vittime di tratta più o meno consapevoli – oltre a trovare conferme degli innumerevoli pregiudizi esistenti, riscontravo nei miei interlocutori anche un sistema culturale che di fatto tende a giustificare il fenomeno della prostituzione femminile, legittimandolo come “mestiere più antico del mondo” . Ho sempre sentito rabbia e un profondo senso di ingiustizia nei confronti di questo atteggiamento, sentendomi toccata in prima persona pur non essendo una prostituta. Per questo motivo desideravo trovare nuovi spunti di riflessione e di studio per scardinare certi retaggi culturali e affrontare un tema che a quello della tratta è intrecciato indissolubilmente: la sessualità femminile e i tabù che ancora oggi, nel 2010, la nascondono. Perché la prostituzione straniera che c’è nelle strade, oltre ad essere spesso confusa nella mentalità comune con la prostituzione come scelta, è una “compravendita di servizi sessuali in un rapporto dispari”. Ed è proprio sulla disparità di questo rapporto che ritengo si possa indagare per scardinare i meccanismi che alimentano da sempre e, scandalosamente ancora oggi, la meschinità nel giudicare con un metro di giudizio differente chi si prostituisce (la donna) e colui che utilizza la prostituzione (l’uomo). Meccanismi che legittimano uno squilibrio fra sessualità maschile, diritto tacitamente scontato e accettato e quella femminile… quasi sconosciuta. L’etnologa Paola Tabet, nel saggio La grande beffa – Sessualità delle donne e scambio sessuo-economico (Rubettino, 2004), dice: “La definizione di cosa sia una prostituta o puttana ha una variabilità straordinaria e comprende casistiche spesso opposte: ad esempio, per il popolo Irigwe della Nigeria le regole sociali stabiliscono che una donna debba avere più mariti scelti dal padre a cui, da ogni genero viene dato del bestiame in cambio della figlia (…). Per gli Hima in Uganda invece, una moglie deve avere più rapporti sessuali coi parenti del marito e i suoi partner commerciali. Quella che invece abbia magari solo un partner, ma scelto da lei stessa, viene definita puttana e si tratta di una pesante stigmatizzazione.” La Tabet prosegue portando un esempio della storia europea: “ Nell’Inghilterra del medioevo, una donna non veniva designata come puttana in base allo scambio economico, perché questo scambio riguardava tutte le donne. Tanto che, come la storica Karras Mazo mette in rilievo, la cultura inglese del tardo medioevo non aveva una categoria concettuale specifica per la donna che scambiava sesso col denaro. Qualsiasi donna però che non appartenesse ad un uomo, qualsiasi donna che non fosse sottoposta al dominio di un padre, marito, padrone, era una donna fuori dal controllo, fuori posto e perciò a rischio di essere definita puttana”. In questi esempi, così distanti tra loro, l’unico reale e comune significato della parola puttana che emerge può allora coincidere con quello della donna fuori regola, fuori dal controllo socialmente definito: può essere quella che offre sesso in cambio di denaro a molti uomini, ma anche la donna che ha un solo amante non a pagamento, ma per sua scelta. L’elemento comune a definizioni così svariate è in sintesi la stigmatizzazione di una trasgressione, più specificatamente di un comportamento da parte della donna che va contro le regole sulla gestione del proprio corpo. Gestione che, questo è il nocciolo della questione, culturalmente non è della donna stessa, ma di altri da lei: è puttana chi trasgredisce alle regole sociali della propria cultura stabilite da chi ha la gestione della sua sessualità. Certo, questi non sono concetti che vengono esplicitati con facilità, ma sono quelli che stanno alla base della discriminazione di genere sulla sessualità, ancora così forte e socialmente accettata anche nei paesi occidentali. “La parola puttana è così una bussola che serve a regolare il comportamento delle donne”, un giudizio negativo che ha il potere di condizionarne le vite. La definizione stessa di puttana è pertanto uno stigma di genere che può colpire qualsiasi donna e serve come mezzo di controllo sulle donne. Sempre all’interno del saggio della Tabet viene riferito come sia universalmente riconosciuto nei rapporti delle agenzie internazionali che l’accesso diseguale all’istruzione, al lavoro e in genere alle risorse, crei nelle più varie situazioni una dipendenza economica delle donne. Ne consegue che in molte culture il sesso è la moneta con cui ci si aspetta che le donne meno abbienti paghino le occasioni della vita: Paola Tabet definisce così lo scambio sessuo-economico un fenomeno sociale generale. Per evidenziare meglio questa definizione cita un classico della letteratura antropologica, un lavoro di Malinowsky sulla vita sessuale delle popolazioni nelle isole Trobriand della Nuova Guinea. Dallo studio di Malinowsky, emerge che in questa società fin da molto giovani maschi e femmine godrebbero di una grande libertà sessuale, nel senso che le donne sarebbero altrettanto propense degli uomini al rapporto sessuale. Tuttavia gli atti sessuali femminili vengono definiti come servizi resi dalle donne agli uomini e come tali ricompensati con doni. Questi doni sono qualificati come “pagamenti per servizi resi”, ossia come manipula, termine che si usa per definire qualsiasi forma di pagamento per un lavoro: il compenso alle partner femminili è obbligatorio in tutti i rapporti sessuali tra maschi e femmine. A questo punto, la Tabet pone delle domande che voglio riportare per intero: “Cosa fa si che anche in contesti di apparente libertà sessuale – dove sembrerebbe possibile uno scambio paritario di piacere per piacere e l’atto sessuale potrebbe essere quindi un luogo di reciprocità ed uguaglianza – lo scambio di sessualità tra uomini e donne sia definito un servizio femminile? E ancora, la sessualità possiamo davvero pensarla come un fatto solo naturale ed istintivo, un’oasi felice fuori dai rapporti di dominio? O non dovremmo piuttosto uscire da questa rappresentazione idilliaca e situare invece la sessualità nel contesto delle relazioni economico-sociali? E ammettere, come suggeriscono i più recenti studi , compresi quelli delle organizzazioni internazionali, che tutte le questioni riguardanti il sesso devono essere interpretate alla luce delle differenza di potere tra uomini e donne”. Un altro esempio che spiega meglio il senso di queste domande, riguarda la contemporanea società haitiana: nella maggioranza della popolazione, tutte le relazioni consensuali, coniugali ed extraconiugali sono viste come uno scambio tra imput economici da parte dell’uomo e accesso sessuale accordato, come contropartita, dalla donna”. Nonostante il lavoro femminile abbia ad Haiti un valore riconosciuto, si considera esplicitamente che il sesso delle donne abbia un valore di scambio e che costituisca il patrimonio della donna. Ma questo “patrimonio” deve essere utilizzato secondo regole ben precise: una donna che esprima interesse per il sesso è “poco corretta e pericolosa”, quindi bisogna calmarla, anche con uno stupro collettivo. Il modello, imposto anche con la violenza, nei confronti del quale le donne sono culturalmente obbligate ad attenersi, è quello del poco interesse sessuale e “una donna che faccia sesso con un uomo senza richiedere o senza che le siano stati offerti in cambio benefici tangibili è considerata leggera, frivola, poco seria”. Il compenso ricevuto in cambio di una prestazione sessuale è legittimato in questo modo: la donna “utilizza” in modo corretto la propria sessualità. La posta in gioco a questo punto diventa più chiara: è la differenza tra avere una sessualità propria o dare un servizio. Da un’altra ricerca fatta a Città del Messico sui travestiti emerge un ulteriore elemento utile a completare l’indagine dell’etnologa. A proposito delle relazioni tra i travestiti e i loro amanti viene fuori che, quando un uomo corteggia una donna, la invita fuori e paga per lei, magari le fa dei regali perché in cambio avrà la sua compagnia per la serata e forse anche per la notte. Quando invece corteggia un travestito non si sente in alcun obbligo di pagare: mentre la donna non è pensata come soggetto di sessualità e di desiderio e per questi motivi deve ricevere dei “compensi” come contropartita per i suoi “servizi”, il travestito al contrario viene considerato motivato dal suo desiderio e dal suo appagamento sessuale. Secondo la Tabet, questa differenza nel considerare la sessualità maschile e femminile, a prescindere dalle variazioni individuali, ha una “struttura sociale” ed è un prodotto sociale”. A questo punto del suo ragionamento la Tabet si domanda: “ Come avviene il condizionamento della sessualità femminile ad una forma di servizio e in definitiva di subordinazione?” Una prima risposta a questa domanda deriva sicuramente dall’accesso alla conoscenza: partiamo dal presupposto che l’esclusione dalla conoscenza, anche a livello generico, è sempre stata un efficace strumento politico di conservazione del potere propria dei gruppi dominanti a scapito dei dominati. La differenza di poteri tra i sessi determina obbligatoriamente un accesso diseguale alla conoscenza anche sul terreno specifico della sessualità. Con la pratica di mutilazioni genitali che tocca milioni di donne è chiaro che la condizione primaria per poter parlare di conoscenza della sessualità ed esplorazione del proprio corpo è annullata. Ma a risultati simili portano anche altre forme di violenza sia fisica che psichica come lo stupro e forme di condizionamento e repressioni mentali: vere e proprie mutilazioni psichiche che decretano per milioni di donne l’impossibilità ad avere una sessualità propria. La disparità nella conoscenza del proprio corpo e della propria sessualità tra maschi e femmine è stata più volte rilevata e costituisce anche nelle società occidentali l’altra forma di menomazione delle donne e della loro sessualità. In una ricerca svolta alla fine degli anni novanta a Londra e Manchester tra ragazzi e ragazze fra i 16 e i 21 anni, le ragazze riferivano la mancanza quasi completa di un’educazione, formale o informale sui piaceri fisici del sesso e sulle potenzialità del proprio desiderio: il contrasto rispetto al modo in cui i ragazzi imparavano la loro sessualità era evidentissimo. Laddove alle ragazze veniva insegnato a badare alla propria reputazione e a proteggersi dal pericolo, i ragazzi imparavano che i veri uomini sono soggetti consapevoli alla ricerca del piacere sessuale. In Italia si può senz’ombra di dubbio affermare che al giorno d’oggi impera ancora questo tipo di differenziazione, a livello culturale e sociale: il divieto che inizia dalla prima infanzia è un elemento essenziale nel modellare la sessualità femminile e va molto al di là della questione della verginità. “Così si stabilisce già un enorme disparità: si pensi ad esempio come da noi sia tollerato che il bimbo tocchi o giochi col proprio sesso mentre una bimba che tocchi il proprio venga immediatamente bloccata. Si tratta di un punto minimo in apparenza, in realtà invece cruciale e che concerne il condizionamento globale della sessualità: la ragazza non deve sapere niente, né ancor meno avere un desiderio suo e spetterà al marito o al primo partner insegnarle tutto”. Da quanto riportato fino a questo punto, emerge un dato drammaticamente attuale: “la costrizione sociale incide pesantemente sui comportamenti delle donne nelle società più diverse con il contrasto normativo della ragazza seria, innocente, che non sa nulla di sesso e attende l’iniziativa dell’uomo e per contro, la ragazza “esperta”, quella che sa e decide, quella cioè stigmatizzata come puttana”. Non è sorprendente allora che, come risulta dalla ricerca precedentemente riferita sui giovani inglesi, per le ragazze il punto chiave degli incontri sessuali sia di venire incontro ai bisogni e ai desideri maschili. Manca la possibilità di esprimere il proprio desiderio ma manca ancor prima la possibilità di conoscerlo, elaborarlo, immaginarlo. “L’impedimento per le donne a conoscere il proprio corpo e di sperimentare ed immaginare la propria sessualità, tende a produrre una definizione di sessualità estremamente ridotta e costituisce un elemento di primaria importanza di condizionamento e subordinazione della sessualità femminile”. A tutto ciò corrisponde anche l’assenza di linguaggio: lo spazio del discorso è occupato dal linguaggio maschile, linguaggio dominante che esprime una supremazia e implica una sottomissione. Gran parte del linguaggio femminile sul sesso è ancora costituito da silenzi.” (Ilaria Schirru - www.nonsitratta.it)