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“NON SO COSA SIA”, racconto breve di Giulio Trezza

Creato il 19 febbraio 2012 da Edizionidelcalatino

 “Non so cosa sia, non riesco a capirlo”, le risponde. “ Eppure dovresti riconoscerne il gusto, ti piaceva così tanto.” Lei continua ad aspettare. Pensa che prima o poi Luca dovrà decidersi a parlare. Anche lui aspetta, suppone però che se non è bastato lo spazio di un corridoio (“quel lungo spazio che va dall’ingresso alla cucina, quell’interminabile spazio”) alle parole di Laura, “forse sarà sufficiente il contenitore intimo e rilassante della cucina”. Aspettano entrambi. Unica differenza fra i due è il grado del desiderio riguardo ai chiarimenti. Luca vorrebbe che il dialogo fosse breve e conciso, lapidario. Ha sempre ritenuto superfluo il “non essenziale” alla comunicazione; Laura, invece, ama tutti i passaggi intermedi che stanno alla base di un ampio ed esaustivo colloquio. Intanto, lui indugia col cucchiaino nella parte bianca della farcitura, poi assaggia di nuovo, per la seconda volta sente il sapore freddo e proprio del metallo, mentre è appena un piacere indistinto quello che gli viene dal dolce che si scioglie sulla lingua, un piacere come di un bel ricordo d’infanzia, come d’un pensiero felice “sulla punta della lingua, ovvero sul fil di lama della memoria”. “Lo so perché sei venuto.” Luca sente il cuore battergli forte, le braccia prive di forza. Si fa coraggio: “Non so cosa sia. Potrebbe essere nocciola e pistacchio … Sai, l’essere figlio unico non è mai stato una cosa semplice per me. Mio padre cominciava sempre dalla farcitura … Non so cosa sia, forse vaniglia e limone … Ricordo che quella mattina le nuvole erano terse, sembravano inseguirsi con la lentezza di un giorno a riposo dopo un pesante lavoro … Non so cosa sia … Ricordo che venne l’estate, che tu non sopportavi più la mia infelicità”. “Lo so perché sei venuto.” “Non so cosa sia. Ricordo il sapore della solitudine, del rimpianto, della colpa … Non so cosa sia. Forse mandorla e caffè, la fuga morbida dell’affogato, una corsa a strappare radici di ginseng, due binari che sanno di fumo e metallo, di rabbia e incoscienza. Non so cosa sia. Mio padre mieteva grano, piantava cipolle, raschiava acque salmastre dal pozzo, irrigava i solchi delle fragole, vendemmiava uva, cura e fatica. Mio padre guardava alle nuvole, al recinto da farsi in fretta, all’amore per un figlio insolvente, al nulla che avrebbe potuto lasciarmi. Non so cosa sia. Ricordo il sapore delle ortiche, quel sapore spinoso che viene dal nulla, da una casa non abbastanza spaziosa per tre, da un lavoro che tardava a venire”. “È di ritorno da scuola, fra poco, potrai vederlo tutte le volte che vorrai. Magari oggi ti fermi a pranzo, a patto che indovini cos’è”. Luca insinua il cucchiaino nella parte bianca della farcitura, fa una smorfia di sorpresa, poi esclama:“È di certo vaniglia e fragola, nocciola e caffè, mandorla e pistacchio, cioccolato e pan di Spagna, zucchero filato e metallo …”. “Sicuramente metallo” ribatte Laura, “sicuramente metallo”.

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