Ho incontrato JCO per la prima volta nell'amatissima biblioteca del paese. (Amatele ste biblioteche, sono i posti più belli del mondo. Più delle librerie)
Appoggiato su un tavolo stava un libro rosa barbie. Sulla copertina stava una bambina, truccata come quelle bimbe degli inquietanti concorsi di bellezza. (O era una bambola con quelle fattezze? Non mi ricordo e non voglio googlare, vado a memoria).
Ora di quel libro (Sorella, mio unico amore) ricordo poco e niente, vorrei riprenderlo, ma non è questo a importarci ora.
Il succo è che da quel romanzo in poi la Oates è stata la linea parallela che ha accompagnato quella della mia vita.
Storia di una vedova non è un suo romanzo, è un memorial, lo dice il sottotitolo. Racconta, come è facilmente intuibile dal titolo, del momento in cui suo marito è mancato. Dagli ultimi giorni in ospedale fino al dopo, la sua sopravvivenza.
Andiamo con ordine.
Io sono profondamente innamorata. Ho provato con tutte le mie forze ad ostacolare questo problema sul nascere, ma quando poi il sentimento è partito (perché parte) l'ha fatto con un rinculo pazzesco, lasciandomi indolenzita e piena di botte.
Non sono una di quella che vuole le relazioni da film, tutte scombussolate ma romanticissimissime, con i piatti lanciati e poi le scene commoventi sotto la pioggia.
Io amo tantissimo il mio rapporto sano, reale, ma profondo, in cui ci sono giorni che dopo anni il bisogno di un suo abbraccio ancora mi cava il fiato. Amo questo modo di vivere le cose più pacato. Le macchiette da film romantico non mi interessano e non hanno alcun fascino su di me.
Ho al mio fianco una persona, come ce l'hanno altre milioni di persone. È con me quando ho giorni bellissimi, quando ho giornate mediocri, o quando ho momenti terribili, o ancora quando piango a dirotto, per giorni interi, perché un romanzo mi sta spezzando il cuore.
Ed è questo il caso.
In seicento pagine (che pesano come cinquemila), JCO fa un lavoro di esplorazione della sofferenza che credo essere senza precedenti.
Sono quasi certa che nessuno l'abbia costretta usando la violenza a scrivere questo libro. La profondità a cui si va sarà stata sicuramente una sua scelta, avrà ovviamente deciso lei cosa e quanto esporre.
Eppure, per tutto il tempo, ho sentito che era sbagliato. Che non avrei dovuto stare lì, che avrei dovuto lasciarla sola, nella sua sconfinata sofferenza, che mi stavo intromettendo in qualcosa di troppo grande e troppo intimo, che stavo spiando attraverso il buco della serratura una donna piangente.
Perché questo infinito memorial è questo: ogni parola, ogni sillaba, persino la punteggiatura, sono un'infinito - ma composto e dignitosissimo - pianto disperato.
È la mancanza di chi riempiva ogni cosa, che lascia quindi tutto vuoto. Ed è qui che mi ricollego con la mia supercheesy introduzione. Joyce e Raymond hanno vissuto insieme ogni giorno della loro vita per anni, e da quello che traspare dalle parole di lei era proprio una relazione di quelle che amo. Quelli di lui erano gli occhi che guardava la mattina appena sveglia, era sua la bocca per cui cucinava, erano sue le mani con cui ha costruito una carriera. E, all'improvviso, niente di tutto questo c'era più. Il solo pensiero (che durante la lettura ho avuto troppo spesso) di una simile eventualità mi fa saltare un battito.
Inizia un profondo viaggio in un insensato senso di colpa, in un'autoaccusa (che ai nostri occhi sembra assurda) di egoismo che è talmente dura da non riuscire nemmeno più a commuovere. Ray non può mangiare, non mangio nemmeno io. Ray non può più fare questo, non è giusto che lo faccia io. Dio, è insostenibile. È durissimo vederla farsi coraggio, per la voglia di non pesare, e poi vederla crollare. Così come è difficile leggere le sue mail (che esposizione totale, darci in pasto le parole che aveva riservato agli Amici), e sentirla parlare di se stessa in terza persona.
Dall'apertura più totale, quella che usiamo quando parliamo con i nostri compagni di vita, all'uscita da se stessa: Joyce diventa la futura vedova prima, la vedova dopo, e questo passaggio ci è sbattuto in faccia con la delicatezza che la contraddistingue, riuscendo comunque a colpirci durissimo, e noi non possiamo che osservarlo impossibilitati a fare alcunché.
Se cercate un libro commovente, qualche lacrimuccia facile, cercate altrove.
Questo è dolore nella sua forma più pura, spogliato di qualsiasi romanticismo, di qualsiasi voglia di compiacere.
E fa un male cane.